giovedì 24 ottobre 2024
Nel secondo film diretto da Todd Phillips e interpretato da Joaquin Phoenix si attendeva ancora l’eroe irriducibile e violento ed è forse per questo che delude
Joaquin Phoenix in "Joker"

Joaquin Phoenix in "Joker" - Ansa

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«Joker non esiste più»: è in questa battuta spiazzante e struggente – a metà tra la malinconia della perdita e il respiro di una liberazione – che si concentra tutto il senso del secondo film su Joker. Folie á Deux di Todd Phillips. Ed è quello che lo rende capace di arrivare al punto più infuocato dell’esperienza di una persona, ribaltando la sua immagine stereotipata e sfidando anche il gradimento del pubblico. Il caso va ben al di là del successo – o, come pare, dell’insuccesso – del film in sé: quello che sta accadendo, infatti, è una sorprendente corrispondenza tra quanto è raccontato all’interno della finzione cinematografica e la reazione reale che sembra prevalere tra gli spettatori.

Si ricorderà la storia del primo film, carica come sanno esserlo i fumetti e tragica come devono esserlo i miti: una storia che aveva conquistato il cuore e l’immaginario di tanti, toccando corde profonde e ferite nascoste al fondo dell’esistenza. Arthur Fleck – nell’interpretazione di uno strepitoso Joaquin Phoenix – era un uomo decisamente turbato a livello psichico, aspirante comico completamente frustrato, che non riusciva a farsi spazio nel mondo dell’entertainment e restava ai margini dell’umiliante circo che era diventata la vita per lui, truccato con la maschera del “pagliaccio” per far divertire i bambini malati. Una serie di circostanze sfortunate accelera il suo degrado psichico e fisico: per reagire a un pestaggio ucciderà tre persone e per reagire alle menzogne di sua madre ucciderà anche lei. Quanto più il suo aspetto da clown diventa segno di un’irrecuperabile marginalità, tanto più il pagliaccio diventa protagonista, gettando sulla società la colpa della sua condizione e producendo finalmente quel consenso che tanto desiderava.

Nel secondo film succede però qualcosa di inaspettato nella narrazione del mito del Joker: tutti si aspettavano, come lo si aspetta dai veri eroi, che trionfasse la sua irriducibilità – anche a costo di innalzare il livello della violenza – rispetto alla sua infermità esistenziale e alla sua devianza sociale, e che la ribellione indomita escludesse ogni possibile conciliazione. E invece a questo punto tutto si rovescia. Accade nell’ospedale-prigione psichiatrico in cui è internato in attesa della sentenza di morte, e grazie allo sguardo di una donna, internata anch’essa, tanto affascinante quanto ambigua nelle sue reali intenzioni, di nome Lee Quinze, cui presta tutta la sua potenza visionaria Lady Gaga. Arthur arriverà a scoprire, per quello sguardo, che lui non è più e non potrà mai più essere il Joker. Ed è tanto più paradossale perché anche lei lo vede come l’eroe della distruzione violenta e irriducibile dell’ordine sociale. Ma il suo sguardo, al contrario, come una promessa e una traccia di amore, avrà l’effetto di far cadere definitivamente la maschera del clown dal volto di Arthur. Ne vediamo ancora il ghigno cattivo e isterico, ma sempre più inadeguato al volto disarmato di chi la indossava come un’arma. E questo gli permette anche di riconoscere di fronte alla testimonianza del suo amico nano, forse l’unico ad avergli voluto un po’ di bene, che la ferita lasciata negli altri non può essere giustificata dalla necessità della violenza.

È come se Arthur si accorgesse per la prima volta di esserci, di essere sé stesso e anche di essere ferito a morte dalla sua malattia mentale. Ma, appunto, se ne accorge: non lo vive più solo come una perdita ma come un’attesa, quasi una tenerezza, starei per dire come un cenno di perdono verso sé stesso. Qui è la sua vera irriducibilità. Il fallito era diventato eroe, e l’eroe è diventato uomo. Il mito si fa storia e nella necessità della sorte si apre il varco di una quasi impossibile libertà. I seguaci di Joker non capiranno, la stessa Lee non capirà e lo lascerà: tutti delusi dalla perdita della sua immagine tristemente vittoriosa, ma falsa. E lui è ormai pronto ad attraversare la linea di confine verso l’umano: e la passerà quasi offrendosi inerme alle pugnalate di un altro balordo mentale che con quel gesto sembra voler ritrovare il Joker perduto.

Ma il suo pubblico, appunto, è da un’altra parte. E anche il pubblico del film in effetti si sta mostrando alquanto tiepido, se non scettico, proprio perché le aspettative del violento e rabbioso perdente che vuole sfasciare tutto – e in cui si possono rispecchiare le frustrazioni che poco o tanto abitano in ciascuno di noi – non mantiene le sue promesse. Lui era il distruttore per conto nostro, e ora vuole rinunciare incredibilmente alla maschera che lo aveva, e ci aveva, esaltato. Il Joker non esiste più, si è come auto-distrutto, ma non ha lasciato il niente dietro di sé: ha mostrato invece al tempo stesso cosa sia il volto di un io, la sua segreta, vera vittoria contro il nulla.

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