Juan Martin Guevara
Una lettera firmata dal nunzio apostolico Pio Laghi accompagnata da un crocifisso e da una medaglia della Vergine Maria. È quello che ricevette in carcere Juan Martín Guevara, fratello minore del Che, durante la sua prigionia a Villa Devoto nel 1975, ai tempi della dittatura argentina. Era stato lui, giorni prima, a scrivere alla nunziatura di Buenos Aires denunciando di aver subito maltrattamenti e torture da parte del potere esecutivo nazionale. L’arrivo di quegli oggetti gli confermò che un contatto col futuro cardinale Laghi era stato stabilito. «Quella medaglia e quel crocifisso mi costarono molte percosse da parte delle guardie carcerarie finché, nel corso di una perquisizione, i militari non me la strapparono dal collo». Esattamente un anno fa, la pubblicazione di documenti d’archivio dell’epoca ha rivelato che in una delle liste di prigionieri inviate dall’ex nunzio ai militari compariva anche il nome del giovane Guevara, che molto probabilmente riuscì a salvarsi proprio grazie all’interessamento di Laghi.
In questi giorni Juan Martín è in Italia: oggi sarà l’ospite d’onore della rassegna cinematografica “Al cuore dei conflitti” di Bergamo, giunta all’ottava edizione e come sempre dedicata a storie di ingiustizie, ribellioni e umanità. In Spagna e in Gran Bretagna è appena uscita la traduzione del suo libro Mon frère le Che (scritto con la giornalista francese Armelle Vincent), nel quale ha cercato di attualizzare la figura del fratello facendo emergere il suo lato più umano, nel cinquantesimo anniversario della morte. «Ho atteso quarantasette anni per andare a visitare il luogo dove fu ucciso, la piccola scuola di La Huiguera, in Bolivia, e anche per rilasciare dichiarazioni pubbliche in merito – racconta –, dopo tanto tempo sentivo il bisogno di umanizzarlo, di dare forma ai suoi pensieri. Purtroppo quel luogo è stato usato per commercializzare la sua immagine e per dar vita al culto che mi fa orrore, quello di “San Ernesto de la Huiguera”, al quale la gente del posto chiede miracoli».
Juan Martín ha quindici anni meno del Che ma il suo sguardo tradisce un’innegabile somiglianza con quel fratello che lo considerava il suo erede spirituale. «La grande differenza di età ha fatto sì che all’inizio il nostro rapporto fosse solo quello di un fratello molto più grande nei confronti di un bambino. Ma col tempo abbiamo saputo mantenere un rapporto intimo anche stando lontani, con un grande rispetto reciproco». Subito dopo essere entrato all’Avana alla testa di una delle divisioni di Fidel Castro, nel gennaio 1959, Ernesto lo chiamò a Cuba per fargli vivere quei giorni. «Sono cresciuto in un’epoca segnata dalle rivoluzioni, da grandi cambiamenti in tutta l’America Latina e il Che, oltre a essere mio fratello, è stato un punto di riferimento, come per gran parte della gioventù di quegli anni»'. Anche a distanza di mezzo secolo, ricorda molto bene il giorno in cui venne a sapere che era stato ucciso.
«All’epoca lavoravo come garzone in una ditta casearia di Buenos Aires. La mattina presto appresi la notizia dai giornali e al contrario dei miei familiari, non appena ho visto la foto, mi sono convinto che era vero. Come non ho mai avuto alcun dubbio che a ordinare l’omicidio non fu Fidel Castro ma la Cia, com’è stato poi confermato anche da numerosi documenti d’archivio». Proprio il legame di parentela con il numero due della rivoluzione castrista sarebbe costato a Juan Martín Guevara oltre otto anni di prigionia nelle carceri della dittatura argentina. Arrestato nel 1975, divenne un detenuto «a disposizione del potere esecutivo nazionale», prima di essere condannato per generiche attività sovversive. Ottenne la libertà condizionale solo nel 1983, al crepuscolo del regime, con ogni probabilità proprio grazie all’interessamento dell’ex nunzio Pio Laghi, morto nel 2009. Da allora il mondo è cambiato radicalmente.
«Quando ho visto Raúl Castro e Obama che si stringevano la mano annunciando la ripresa delle relazioni diplomatiche dopo cinquant’anni di contrasti – rivela – ho pensato che stava succedendo quello che prima o poi doveva succedere. E ho ricordato cosa rispose mio fratello alla giornalista statunitense che negli anni ’60 gli chiese cos’avrebbe dovuto fare Washington nei confronti di Cuba. Niente, le disse, assolutamente niente. Soltanto lasciarci in pace». È inevitabile provare a chiedergli se si riconoscerebbe nella Cuba di oggi. «Non riesco a rispondere al posto suo. Mi sembra metaforico provare a dire quello che penserebbe adesso, non posso certo indovinarlo. Credo però che il suo pensiero sia ancora attuale. Nel mondo ci sono enormi disuguaglianze e sempre più corruzione, ancora più che in passato. Fino a quando i popoli non potranno essere padroni del proprio lavoro, della propria vita e del proprio futuro, si susseguiranno le crisi e le guerre. Oggi il mondo avrebbe bisogno di un altro uomo come mio fratello, che non baratti i suoi princìpi per il denaro e il potere».