giovedì 20 marzo 2025
Il portiere azzurro oggi direttore sportivo della Nazionale racconta la sua carriera, tra il sogno adolescenziale di emulare N'Kono, la carriera ricca di trionfi e gli errori. «Ora prego per il Papa»
Gigi Buffon

Gigi Buffon - Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

Gigi alla domenica adesso non va più in campo, e mentre aspetta la “convocazione” della Nazionale, di cui è diventato direttore sportivo, va alla Messa. Quando sta a Milano frequenta la Basilica di San Nazaro in Brolo, dove le sciure lo vedono entrare e lui, educatamente, saluta sempre per primo. Entra mano nella mano con sua moglie, la giornalista televisiva Ilaria D’Amico, madre di Leopoldo Mattia, il più piccolo dei suoi tre figli, gli altri due sono David Lee e Louis Thomas, avuti dalla prima moglie, l’ex showgirl ceca Alena Seredova. La famiglia è al centro della sua autobiografia, "Cadere, rialzarsi, cadere, rialzarsi" (Mondadori) scritta con l’assist vincente di Mario Desiati, Premio Strega 2022 con Spatriati. Accezione, “spatriati”, che non vale per un campionissimo come Gigi Buffon, la cui patria resta il calcio che gli ha permesso di salire sul tetto del mondo, a Berlino nel 2006, e di vincere tutto: dagli esordi al finale di partita al Parma, passando per la Juventus fino al Psg. «Il Parma è stata mia madre, la Juve un padre e il Psg l’amico di un’avventura. La Nazionale? È il grande nonno, la figura che tiene unita tutta la mia storia di calciatore e di uomo».
L’uomo di oggi è stato il ragazzino, nato a Carrara nel 1978, che passava gli inverni dai nonni in Friuli, la terra di un altro mitico n.1 azzurro, Dino Zoff.
«Per me bambino ci sono tre figure iconiche rimaste impresse nella memoria: Dino Zoff, Paolo Rossi e Marco Tardelli. Zoff anche per la friulanità che mi legava ai nonni era e rimane un punto di riferimento. La maglia azzurra n. “20” di “Pablito” Rossi al Mundial ‘82 la indossavo anche in porta, era la mia seconda pelle, non la cambiavo mai. L’urlo di Tardelli fu l’imprinting della grinta che già avevo dentro e che mi spingeva a diventare un portiere. Ieri, come oggi, a un bambino che voglia appassionarsi a una disciplina come il calcio servono queste figure, degli esempi, degli idoli in cui identificarsi».
Ma il suo idolo assoluto era e rimane il portiere del Camerun, Thomas N’Kono. Come nasce questa fascinazione esotica?
«Spesso anche nella vita mi capita di affezionarmi agli outsider, cerco di sostenere gli “underdog”. Se c’è una sfida Davide contro Golia beh io sto sempre dalla parte di Davide, per questo rimasi stregato da quel Camerun e da quel portiere fantastico, agile come un gatto. Il mito di N’Kono me lo sono trascinato da Spagna ‘82 fino al Mondiale di Italia ’90 quando avevo 12 anni e allora compresi meglio il senso di quella mia passione. Poi ho avuto la fortuna di conoscerlo e di parlarci, Thomas un mito».
In omaggio a N’kono ha chiamato suo figlio Thomas, promessa del Pisa del suo ex compagno e campione del mondo Pippo Inzaghi, e ora nazionale Under 18 della Repubblica Ceca. Dispiaciuto che non avremo un altro Buffon in azzurro?
«No, sono felicissimo della scelta di Thomas. Sia io che sua madre Alena l’abbiamo sostenuto e assecondato. Ha cominciato tardi con il calcio, a 14 anni, e ha fatto tutto da solo: ha preso la sua borsa e se ne è andato a Pisa. Erano mesi che lo cercavano dalla Repubblica Ceca e alla fine quando ha accettato la convocazione ho pensato che fosse giusto per due motivi. Il primo che d’accordo l’Italia è l’Italia, ma sfruttare il doppio passaporto per fare questa esperienza sarà comunque uno step importante per la sua crescita professionale. Il secondo e non meno importante è perché va in quella direzione in cui lo abbiamo educato, e cioè dare il giusto peso alla riconoscenza. Ai miei figli insegno: se un giorno spiccherete il volo ricordatevi sempre di chi vi ha sostenuto e ha creduto in voi quando eravate agli inizi».
Ai ragazzi della Nazionale invece che cosa si sente di insegnare?
«A Coverciano, dove sono partito dalla stanza n. 209, sono tornato con il mio bagaglio di esperienze fatte in 40 anni di calcio. I ragazzi di oggi sono diversi, non sono né meglio né peggio di quelli della mia generazione, sono semplicemente figli del loro tempo. Di conseguenza se vuoi provare a incidere su ognuno di loro devi essere tu, che sei da solo davanti a un gruppo di 25-30 giovani, ad adattarti, e non viceversa. Occorre trovare il linguaggio giusto per comunicare e fargli arrivare quei valori fondamentali come l’educazione e il rispetto. Questa per me è la base per costruire un gruppo vincente».
Nella sua autobiografia racconta di due “Lucignoli” che ai tempi del Parma gli “regalarono” il diploma di maturità. Conta ancora così poco la formazione culturale per un calciatore?
«Quello del diploma regalato è uno degli errori che, grazie all’esperienza e alla maturità vera, non rifarei più. L’aspetto della formazione è uno di quei campi in cui i calciatori di oggi sono superiori a quelli della mia generazione. I ragazzi ora si informano di più e molti di loro sanno anche argomentare oltre la classica conferenza stampa pre o post gara. Lo spogliatoio se ben sfruttato è anche un luogo di scambio culturale unico che consente di imparare diverse lingue e di confrontarsi con giovani di altrettante nazionalità».
Per molti però la presenza di troppi stranieri è un po’ uno dei grandi mali del calcio italiano.
«Se gli stranieri sono di alto profilo, tecnico e umano, questi non possono che migliorare l’ambiente in cui vengono a giocare. In epoca di globalizzazione la scusa che i troppi stranieri indeboliscano il nostro calcio non sta più in piedi, perché lo stesso indebolimento allora dovrebbe esserci anche in Spagna, mentre le loro squadre, piene di stranieri quanto noi, vincono un po’ tutto e da parecchi anni a questa parte. Il problema vero è che noi da qui in poi dobbiamo lavorare meglio su quella filiera tra i 6 e i 20 anni, dove sicuramente in passato qualcosa abbiamo sbagliato e ora siamo tutti chiamati a fare la nostra parte per correggere migliorare».
Ha giocato con Cristiano Ronaldo e nella sua ultima gara in Champions, Juventus-Barcellona (3-0), ha battuto Messi. Eppure tra i due lei scrive: «Scelgo Neymar come il più forte di tutti». Conferma?
«Confermo, Neymar è il migliore per averlo visto in campo e fuori quando sono andato al Psg. Neymar avrebbe meritato di vincere cinque Palloni d’oro, il problema è che si è trovato davanti Messi e Ronaldo. Questo discorso vale anche quando mi parlano di portieri e mi chiedono se mi sento il “più forte della storia”… Un portiere come Cech, di cui non si parla mai, per me è stato un grandissimo, solo che giocava nella Repubblica Ceca e questo non è certo una colpa.... Spesso la fortuna di un campione dipende da dove è nato e cresciuto, se fossi stato il portiere del Mozambico forse non si sarebbero accorti del mio talento e di sicuro non avrei potuto scrivere un pezzo di storia del calcio».
Considera Gigio Donnarumma il suo erede: ci sono molte affinità elettive fra di voi?
«Innanzitutto il nome, Gianluigi non è certo un nome comune, in più l’assonanza Gigio e Gigi. Tutti e due abbiamo debuttato minorenni in Serie A e poi ci unisce la capacità di saper stare sui palcoscenici più prestigiosi con quella forza e quella concentrazione che ti dà la forza per superare i momenti più delicati uscendone sempre da protagonisti. Gigio è un ragazzo che ha del buono dentro e forse rispetto a me è più tranquillo, io almeno fino ai 24-25 anni ero molto esuberante, uno spaccone. Era anche una forma di difesa verso quel “nonnismo” che allora imperava nello spogliatoio».
Il Gigi che ama le favole e le sfide Davide contro Golia, decise di chiudere al Parma invece di tentare di vincere l’agognata Champions con l’Atalanta di Gian Piero Gasperini che lo aveva implorato di andare a Bergamo.
«Ringrazio ancora Gasperini ma se non sono andato all’Atalanta è perché non potevo tradire l’amicizia di Andrea Agnelli e di tutti quelli che alla Juventus hanno condiviso con me vent’anni di vita. A Parma è stata una favola in cui è mancato il lieto fine e l’unico vero rammarico della mia carriera è non aver chiuso con la promozione in Serie A. È un rimpianto, come non aver vinto la Champions, ma da quando sono padre ho imparato a dare una lettura diversa delle sconfitte: forse, penso, la vita mi vuole riservare ancora cose più belle e successi ancora più importanti da trasferire un giorno ai miei figli…».
Tipo centrare traguardi importanti da dirigente della Nazionale interpretando al meglio il ruolo che fu di Gigi Riva e Gianluca Vialli. Cosa gli hanno trasmesso questi due eroi esemplari del calcio azzurro?
«Gigi Riva, con il suo carisma, mi ha insegnato ad essere una persona credibile e autorevole senza necessariamente perdermi in mille parole. Luca è stato un ragazzo che ha fatto un percorso straordinario, è partito dagli anni folli e spensierati della Samp per diventare un leader alla Juventus e poi un simbolo del Chelsea. Vialli era una uomo profondo, di un livello culturale superiore, con una capacità di analisi e di pensiero che nel mondo del calcio di oggi ritrovo in quei rari ragazzi di ieri come Paolo Maldini, Giorgio Chiellini, Alessandro Del Piero…».
Di Buffon è stato detto e scritto di tutto di più, compreso che, come papa Francesco, è “l’uomo degli abbracci”.
«Innanzitutto sto pregando per papa Francesco perché possa guarire al più presto. Vorrei tanto abbracciarlo ancora.. - dice emozionato - . Io abbraccio tanto perché mi piace stare bene con gli altri, perché ho imparato che la nostra felicità dipende molto da quella delle persone che ci circondano, altrimenti l’esistenza sarebbe inutilmente vuota. Non sono un santo, ho sbagliato e pagato sempre in prima persona, ma è anche per questo che oggi posso abbracciare chi mi viene incontro con la coscienza a posto. L’abbraccio per me è il ponte per costruire grandi e piccoli legami con gli altri, una traccia di fratellanza e la possibilità di lasciare un piccolo seme di bellezza».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: