Il teologo Bruno Forte - archivio
Nella ricerca volta a leggere alcune tracce della nostalgia di Dio nei variegati aspetti della cultura attuale vorrei richiamare il linguaggio di un universo ormai più che familiare a gran parte dell’umanità: quello della “rete”. “To save”, “to convert” sono fra le espressioni più usate nell’impiego del computer e del web, significative al punto da escludere dall’uso fruttuoso degli strumenti informatici chi non sapesse accedere ai processi che esse indicano. Queste parole chiave mi sembrano rivelatrici di un’attesa, profonda e diffusa ben al di là dell’esplicita coscienza che se ne possa avere. Si tratta di parole dalla forte connotazione teologica: nel mondo della fede biblica e della teologia ad essa collegata l’ignoranza dei significati da esse evocati può compromettere il tutto, e cioè l’integralità e la fecondità dell’approccio alla rivelazione, analogamente a come la medesima ignoranza nell’uso del computer ne comprometterebbe in radice la funzionalità.
Web e Bibbia sembrano, dunque, aver bisogno in modo analogo dei processi segnalati dai verbi “salvare” e “convertire”. È questa constatazione, tanto semplice, quanto intrigante, che fa nascere la domanda: si nascondono in questi termini possibili nostalgie di trascendenza? E se sì, in che forma? Cercherò di dare una risposta a questi interrogativi mediante l’esame successivo delle due espressioni, così come esse sono usate nei linguaggi della rete, mettendo poi a confronto il significato che di volta in volta ne risulterà con gli analoghi sensi teologici delle medesime formule.
To save - salvare: resistere all’oblio è ansia del pensiero umano fin dalle origini. “Salvare i fenomeni” è per Aristotele e la grande filosofia greca il compito del logos. Lì dove tutto appare caducità, frammento che viene dal nulla e vi precipita, la passione del filosofo diventa quella di resistere al declino, di difendere il dono o il tormento di esistere. Ecco perché la filosofia nasce dove più forte appare la minaccia dell’inesorabile perdita: «il pathos del filosofo - scrive Platone - è tò thaumàzeiv» (Teeteto 155 D), espressione che dice tanto “la meraviglia”, quanto “il terrore”. Dov’è il pericolo, lì la paura si unisce allo stupore, la sorpresa al timore: lì, più grande è il bisogno di salvezza. «Dov’è pericolo, cresce / anche ciò che salva», recita un distico di Hölderlin (Patmos, vv. 2-3).
Salvezza è difesa dal nulla, baluardo contro il dissolvimento, custodia dell’esserci. È per soddisfare questo bisogno che nasce la scrittura: fermare nel tratto il pensiero, renderlo pronto a nuovi accessi, a nuove comunicazioni. È questo il sogno di ogni “grafia”: salvare il mortale fermandolo. Eppure, la voracità del nulla sembra più avida: lo aveva compreso Platone nella sua memorabile critica della scrittura, contenuta nella parte finale del Fedro, lì dove insiste sul fatto che essa non è un “farmaco della memoria” e non ne sostituisce le funzioni. La scrittura è come un “gioco” rispetto all’impegno di serietà che l’oralità implica; Platone giunge addirittura ad affermare che è filosofo colui che è in grado di venire in soccorso ai suoi scritti mostrandone la debolezza, «sulla base di quelle cose di maggior valore che non ha messo per iscritto» (Fedro, 278 C-E).
Eppure, lì dove le tradizioni orali si sono perdute, le tracce della memoria si appoggiano proprio a quei monumenti, piccoli o grandi che siano, dove lo scritto le ha salvate. Salvare appare allora operazione necessaria, anche se non assoluta: la piccola salvezza offerta dalla scrittura, quella stessa piccola salvezza che è detta dal verbo to save dell’uso informatico, fa appello a un altro, che salvi il salvato richiamandolo, servendosene, dandogli nuova vita. L’Altro in questione secondo la fede biblica è il Creatore e Signore, l’Origine e il Fine, la Custodia e il Grembo. La salvezza in gioco nelle parole della rivelazione non è la protezione di un’ora, di una stagione, di un tempo, fosse pure infinito. È l’accoglienza nella vita senza fine, è l’eternità offerta nel tempo.
Di questo approdo, il linguaggio del web è pallida traccia, segno della nostalgia che tutti ne abbiamo. Eppure, proprio così, to save è cifra di trascendenza, segnale in direzione di un Altro, verso cui siamo orientati, per cui siamo fatti. «Hai fatto il nostro cuore per Te, ed inquieto è il nostro cuore finché non riposi in Te»: con queste parole Agostino (Confessiones, I, 1) si fa voce di una sete originaria, quella della salvezza, e si offre come il testimone dell’Altro di cui abbiamo bisogno per vivere e per morire. Ogni atto del “salvare” è traccia di questa nostalgia che è in noi più forte e più profonda di ogni coscienza che possiamo averne: perfino l’umile processo del to save legato al mondo del web.
“Salvare”, però, non basta: se quanto è stato salvato non fosse più raggiungibile dalla continua evoluzione dei linguaggi del web, vana sarebbe la resistenza all’oblio. Come ogni linguaggio, anche quello informatico si evolve e cambia: la “volatilità” del materiale raccolto e salvato appare la grande debolezza del mondo della rete. Se il libro resiste con la palpabilità delle sue pagine, i file vivono le stagioni dei programmi in cui furono scritti. L’indecifrabilità di alcune scritture è già ormai una barriera alla fruibilità di dati, che pure costarono tempo, ingegno e fatica. Occorre “salvare” il “salvato”: questa operazione di “salvezza” al quadrato è il processo indicato dall’espressione to convert. Occorre trasferire un linguaggio in un altro, senza che nulla vada perduto dei dati originari.
“Convertire” è anche nel mondo del web l’espressione della lotta contro il tempo che passa, finalizzata a esprimere la signoria della continuità sulla frammentazione e sui salti dell’ingegno e della creatività dei soggetti umani. Dove “salvare” dice la custodia del presente, “convertire” segnala la possibilità di creare ponti fra le solitudini salvate. To save è la vittoria sulla caducità dell’istante: to convert è il trionfo sull’incomunicabilità dei tempi successivi e la reciproca estraneità dei luoghi e dei soggetti. È questo, in realtà, anche il senso originario dell’espressione nella tradizione biblica: teshuvà, la parola ebraica tradotta con “conversione”, sta a dire l’atto del ritorno. Mentre il greco metànoia e il latino conversio fanno della conversione un atto del soggetto che cambia mentalità o dirige altrove i suoi passi, l’ebraico fa capire come il convertirsi sia l’evento di una relazione ritrovata.
Lo mostra con evidenza la trasposizione evangelica dell’idea di shuv - “ritorno” e teshuvà - “conversione” nella parabola detta del Figliuol prodigo o del Padre misericordioso (cf. Luca 15). Il linguaggio del web recupera questo senso: ritornare a una relazione perduta, ristabilire un contatto significativo, riaprire i linguaggi della comunicazione è quanto fa chi “converte” il codice di un file in un altro che lo renda leggibile. Certo, nel mondo informatico si tratta di tempi diversi espressi in linguaggi diversi, resi accessibili all’utente attuale. Nel mondo della fede la relazione ritrovata è quella dell’uomo con il Dio della misericordia e del perdono. L’analogia è tuttavia non meno importante: come nell’universo biblico, così nel mondo informatico “convertire” è il processo che testimonia l’importanza vitale della relazione e della comunicazione fra diversi.
Leggere nel lemma to convert la nostalgia di una relazione ritrovata e ristabilita è, allora, molto meno che un arbitrio. Anche così, nei linguaggi del computer si manifesta - più di quanto potrebbe supporsi - il bisogno di salvezza e di riconciliazione che nel profondo del cuore inquieto, oggi come ieri e sempre, tutti, consapevoli o no, ci portiamo dentro: il bisogno e l’attesa dell’Altro, da cui veniamo e a cui siamo chiamati a tornare…