sabato 7 febbraio 2015
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Il cinema come strumento di ribellione e resistenza, come linguaggio per affermare la propria identità e dignità al di là di ogni barriera, censura e reclusione. Forse il grande pubblico non ricorda più molto bene Jafar Panahi, il regista iraniano de Il palloncino bianco, ma i festivalieri non lo hanno certo dimenticato, anche grazie alla sua determinazione e al coraggio di sfidare il regime di Teheran. Arrestato due volte e poi rilasciato proprio grazie alla pressioni di registi e attori di tutto il mondo, che in ogni occasione hanno chiesto la sua scarcerazione, Panahi non può lasciare il Paese ed è stato bandito per vent’anni dagli schermi. Eppure, a dispetto di questa umiliante, assurda punizione, il regista continua a girare film clandestinamente, grazie alla possibilità di lavorare con piccole telecamere o addirittura il telefonino, e i suoi film (sempre più o meno clandestinamente) oltrepassano ogni anno i confini dell’Iran raggiungendo, in maniera a volte rocambolesca, gli schermi dei festival internazionali e vincendo spesso prestigiosi premi. Quattro anni fa è stato persino membro assente della giuria della Berlinale, che ha lasciato per lui una sedia vuota. Ed è così che ieri proprio al Festival di Berlino è arrivato Taxi, una commedia che di tanto in tanto si vena di dramma e che, come i suoi film precedenti, racconta luci, ombre, speranze e frustrazioni della sua gente, quotidianamente impegnata a conquistare la libertà. In questo piccolo, ironico ma accorato atto il protesta il regista – nei panni di se stesso – gira per le strade della città guidando un taxi e caricando a bordo diversi clienti, uomini e donne, che lo riconoscono, gli esprimono tutta la loro ammirazione, si confessano davanti a una telecamerina piazzata sul cruscotto. C’è persino una ragazzina, sua nipote, che con una macchina fotografica realizza il proprio piccolo film: come ad avvertire i tirannici governanti che il cinema è ormai un gioco da ragazzi, persino un bambino dietro un obiettivo può facilmente testimoniare con le immagini ciò che accade.Quello che scopriamo attraverso tante piccole storie di vita quotidiana sono le contraddizioni di una società dall’aspetto moderno, dove però si spacciano film hollywoodiani come se fosse droga, dove la pena di morte è ancora più disumana che altrove, dove la paura di chi è stato vittima della polizia non svanisce, dove l’ottusità di chi difende la legge a tutti i costi finisce per essere comica, dove la speranza di chi crede nella libertà di espressione è sempre più viva, quasi che un radicale cambiamento sia ormai alle porte. Panahi, oltre a non perdere la voglia di lottare, non ha smarrito neppure il senso dell’umorismo e sembra dimostrare con questo ultimo film una ritrovata leggerezza. Così il pubblico ride, anche se c’è poco da ridere. «Sono un regista – ha dichiarato – e non posso fare nient’altro che realizzare film. Il cinema è il mio mezzo di espressione e il senso della mia vita. Nessuno può impedirmi di fare film e quando mi mettono all’angolo entro in contatto con la parte più intima di me stesso: e in quel luogo privato, a dispetto delle limitazioni, la necessità di creare diventa ancora più urgente. Il cinema come forma d’arte è la mia principale preoccupazione. Questa è la ragione per cui devo continuare a fare film in qualunque circostanza, per dimostrare il mio rispetto e sentirmi vivo». II personaggi che si susseguono sul taxi di Panahi sono attori ma, come scrive lo stesso regista alla fine del film che mai avrà una distribuzione, non ci sono crediti né titoli di coda (per motivi di sicurezza) e il ringraziamento va a tutti coloro che hanno corso dei rischi per realizzarlo. «Dal 1951 la Berlinale lotta per la libertà dell’arte e di opinione – ha detto il direttore della kermesse, Dieter Kosslick –. Noi continueremo a invitare Panahi finché la sua sedia verrà finalmente occupata».
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