
La chiesa dell'ospedale Giovanni XXIII di Bergamo con gli interventi di Andrea Mastrovito e Stefano Arienti
Cosa è accaduto all’arte sacra nell’arco compreso tra i due Giubilei? Il tema è al centro di un vasto convegno internazionale “L’edificio di culto e gli artisti. Bilanci e prospettive” organizzato dalle università Gregoriana e Santa Croce. Non si tratta, dunque, semplicemente di tracciare percorsi di dialogo tra arte e Chiesa, ma di entrare nel cuore del problema, il rapporto tra arte e spazio liturgico. Ne abbiamo parlato con Maria Vittoria Marini Clarelli, della Direzione generale creatività contemporanea del Mic, che al convegno presenta una relazione-quadro proprio su “L’artista e lo spazio sacro. 2000-2025”.
Dottoressa, su che scala ha condotto la sua ricerca?
«La ricerca ha un’impostazione internazionale e tiene conto di alcune evoluzioni nel rapporto tra arte e spazio sacro cristiano, principalmente cattolico, con qualche riferimento anche alla tradizione anglicana. Inoltre, ho scelto di studiare artisti che non si sono occupati in modo esclusivo di arte sacra. Il quadro che emerge è abbastanza ottimista: si registrano, a partire dal Giubileo del 2000, diversi tentativi di apertura verso il linguaggio contemporaneo, anche se con problemi di coerenza iconografica. Inizialmente, sono stati scelti grandi maestri dell’arte contemporanea che però non si erano mai confrontati con la dimensione né del sacro né in particolare liturgica. Un esempio emblematico è quello di Robert Rauschenberg, coinvolto nel progetto per il santuario di San Pio a San Giovanni Rotondo. Questo caso ha dimostrato che non è affatto scontato che un grande artista riesca ad affrontare questi temi, soprattutto in un’epoca in cui la cultura non ha più il cristianesimo come terreno comune di riferimento. Questo ha portato a una maggiore attenzione nel cercare coerenza tra arte e spazio sacro e a uno sforzo, anche da parte degli artisti, di entrare più consapevolmente in questa dimensione. Per superare le impasse uno dei principali approcci è stato cercare di superare la difficoltà iconografica attraverso l’uso di una figurazione moderna, come nel caso degli arazzi di John Nava nella cattedrale di Los Angeles, dove i santi sono riportati in un contesto attuale. Chi è riuscito in qualche modo a recuperare un rapporto con la tradizione della pittura di storia ha trovato un linguaggio che dialoga sia con il sacro che con il profano. Altri artisti, come Enzo Cucchi a Ferrara, hanno scelto di opere su entrambi i fronti con un approccio simbolico».

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Quali sono gli scenari che si possono delinare?
«Si possono individuare innanzitutto due contesti principali: da un lato, il rapporto con lo spazio contemporaneo; dall’altro, il confronto con lo spazio storico, spesso di grande valore artistico e simbolico. Nel primo, si riscontrano due tendenze opposte: ci sono casi in cui gli architetti hanno scelto di escludere del tutto gli artisti, come nella Cattedrale di Auckland, dove si è optato per una riproduzione gigante del Cristo di Chartres. Dall’altra parte, invece, esiste un tentativo di maggiore integrazione. In questo senso sono esemplari i progetti promossi dalla Conferenza Episcopale Italiana, che attraverso concorsi coinvolgono fin dall’inizio in un unico team architetti, artisti e liturgisti per favorire una sintesi tra le diverse esigenze. Questo ha permesso all’arte di recuperare una sua centralità all’interno dello spazio sacro».
E sul versante storico come stanno le cose?
«In questo ambito si sono osservati tentativi di diverso livello, spesso con problemi di coerenza liturgica. A livello internazionale, però, ci sono esempi significativi che vanno dall’intervento di Miquel Barceló nella cattedrale di Palma di Maiorca ai lavori sulle vetrate di grandi maestri dell’arte contemporanea in cattedrali gotiche, come Gerhard Richter a Colonia. Un caso attuale emblematico è la discussione in corso su Notre-Dame a Parigi, dove il tema centrale è l’inserimento di interventi contemporanei all’interno di un contesto storico: nei fatti, è un problema nuovo. Ci sono poi casi notevoli di arte figurativa come l’installazione video di Bill Viola nella basilica di St. Paul a Londra, o quello recentissimo, di Andrea Mastrovito al Santuario della Madonna della Guardia di Tortona. Un caso limite, ma significativo, è la chiesa di Viareggio, progettata da TAMassociati con il contributo dell’artista Marcello Chiarenza. Qui sono state recuperate le immagini della chiesa degli anni 70, che è stata abbattuta, ossia quelle su cui si era fissato il culto della comunità, indipendentemente dalla loro coerenza stilistica, mentre Chiarenza ha realizzato una nuova vetrata. Questo ha favorito un dialogo del nuovo edificio con i fedeli, un aspetto fondamentale in questi processi».
Guardando all’esperienza generale, quali sono i punti nevralgici dell’incontro tra artista e architetto?
«Ci sono stati casi in cui l’artista ha assunto un ruolo dominante rispetto all’architetto, come nel caso della cappella di Ettore Spalletti per Villa Serena a Città Sant’Angelo. La chiesa progettata da Francesca Leto a Olbia, invece, ha dato spazio agli artisti ma se la confrontiamo con il progetto di Mario Cucinella a Mormanno, notiamo differenze significative: in quest’ultimo caso, Giuseppe Maraniello ha avuto uno spazio fisicamente ridotto ma le sue sculture risultano più incisive, con una forte presenza che segue l’andamento architettonico dell’edificio. Qui convivono iconografia classica e forme contemporanee. Un altro esempio è la chiesa dell’ospedale nuovo di Bergamo, dove l’architettura è strutturata per mettere al centro gli interventi di Stefano Arienti e Andrea Mastrovito. A Roma, la chiesa del Santo Volto progettata da Piero Sartogo ha concesso grande libertà agli artisti, permettendo loro di esprimere la propria poetica, anche se in alcuni casi si sono riscontrati problemi con l’integrazione liturgica: ma a distanza di 20 anni il progetto tiene bene e pochissime sono state le trasformazioni. Ci sono infine casi in cui l’architetto assume un ruolo dominante, determinando una regia più vincolante per l’artista, ridotto a comprimario, come negli edifici di Mario Botta o la cattedrale di Lamezia Terme di Paolo Portoghesi, che tuttavia ha riservato un ruolo di rilievo ad alcuni elementi artistici come il crocifisso di Paolo Borghi».
Dunque, i rapporti tra arte contemporanea e spazio sacro sono complessi ma anche vivaci…
«Sì, e a dire il vero lo sono sempre stati. Il confronto tra la libertà dell’artista e le esigenze dello spazio sacro è inevitabile, ma proprio da questo confronto possono nascere esperienze artistiche e spirituali profonde. Quello che però vorrei sottolineare è che ciò che occorre in fase di committenza è una decisa scelta di campo. Uno dei problemi della figurazione tardocubista adottata negli anni ’50-’70 è stata proprio un’incertezza tra dimensione storica, con un modernismo addomesticato, e simbolica che l’ha resa debole dal punto di vista iconografico. Il compromesso non aiuta. Meglio affrontare una linea di discussione anche problematica, che magari può portare a un rifiuto, ma chiara e netta. I risultati si vedono».