Aprile spezzato, è il titolo del romanzo del più grande poeta albanese vivente, Ismail Kadare. Sta vivendo un aprile radioso invece l’Albania del calcio, specie da quando a guidarla è il 56enne veneto Gianni De Biasi che davanti al porto di Durazzo ha stabilito la base tecnica e da lì fissa l’orizzonte più vicino: «La costa pugliese, è a soli 80 chilometri», sorride. Nella sua mappa mentale, invece, sa bene che il prossimo approdo è il Brasile, Mondiali del 2014. E non è affatto un miraggio, perché dopo l’ultima vittoria nel girone di qualificazione (il 22 marzo scorso ad Oslo: Norvegia-Albania 0-1) i suoi ragazzi sono saliti al secondo posto in classifica - assieme all’Islanda -, a soli 2 punti dalla capolista Svizzera. «Dzemaili, Berhami e Shaqiri, sono di origine albanese, potevano giocare con noi, ma se li è portati via la federazione svizzera, altrimenti...», dice ironico il ct che quando un anno e mezzo fa, «ancora scottato dall’esonero lampo dell’Udinese», gli arrivò l’offerta dalla federazione di Tirana, per un attimo ci ha pensato su. «Sapevo che non sarebbe stata una gita al di là dell’Adriatico e, tanto per cominciare, la famiglia l’ho lasciata a Conegliano. Ma appena arrivato ho trovato un Paese e strutture sportive migliori di quanto immaginassi. E, poi, la gente è ospitale, c’è un bel clima, ottimi alberghi, uno splendido mare e nei ristoranti faccio grandi mangiate di pesce a prezzi stracciati. La crisi? Un pensionato italiano qui camperebbe bene, basti pensare che un operaio vive dignitosamente con uno stipendio di 250 euro al mese». Già ma il mestiere di ct è un’altra storia, specie in un Paese che non ha mai conosciuto una fase finale di un Europeo e ancor meno di un Mondiale di calcio. «Mi sono rimboccato le maniche, ho capito subito che prima dell’allenatore qua serviva lo spirito dell’artigiano. Un esempio? Avevo chiesto un archivio dei calciatori albanesi sparsi nel mondo, beh... lo sto ancora aspettando. Così con il mio staff abbiamo scandagliato Internet in lungo e in largo ed è venuto fuori che a Kalmar (Svezia), in un villaggio sperduto di pescatori, gioca Etrit Berisha, un portiere classe 1989 di cui sentirete parlare presto anche in Italia. E non solo perché è omonimo del Premier. Qui quel cognome è come da noi il signor Rossi. Ne avrei anche un altro di Berisha – sorride divertito –: Besart, un buon attaccante di 27 anni che gioca in Australia, ma poveraccio per ora non me la sento di convocarlo per poi, magari, tenerlo in panchina dopo il viaggio che si dovrebbe sorbire». Non è agevole rispondere alla convocazione neppure per Hamdi Salihi, l’autore del gol alla Norvegia, gioca in Cina nel Jiangsu Sainty: «Infatti, come premio dopo la gara di Oslo gli ho risparmiato l’amichevole con la Lituania». Altra vittoria, 4-1: reti di Migjen Basha, centrocampista del Torino e di Edgar Çani del Catania. Due dei 6 “albanesi d’Italia”: gli altri sono il giovane Elseid Hisaj 19enne dell’Empoli, il laziale Lorik Cana (il capitano), il portiere del Chievo, Samir Ujkani, e il bomber girovago Erjon Bogdani del Siena. «Sono i più bravi che ho, ma molti di loro nei rispettivi club giocano poco. I rari rimasti qui, si confrontano nel campionato che è di basso livello, ma la passione e la voglia di migliorare che hanno, mi fa ben sperare per il futuro e non pentire di aver lasciato il nostro calcio». E pensare che appena un decennio fa (quando il ct dell’Albania era Beppe Dossena), De Biasi era stato premiato come il secondo miglior allenatore della Serie A, dietro a Fabio Capello. Erano gli anni del suo Modena champagne in cui si spolmonava il piccolo-grande Paolo Ponzo che è appena volato via. «Quanto mi manca Paolo... Un esempio di umiltà e di uomo vero che non ho più ritrovato in nessuna altra società». Dopo Modena è stato il tempo del Brescia: «Avevo Roberto Baggio, il più grande giocatore che ho allenato». Poi in tre anni - dal 2005 al 2008 - tre andate e tre ritorni («in mezzo una bella esperienza in Spagna, al Levante con il mio amico Damiano Tommasi») per, poi, salvare sempre il Torino di Urbano Cairo che non fu del tutto riconoscente. «La sfortuna è stata incontrare Cairo quando ancora era digiuno di gestione calcistica, ora sarebbe diverso. Il Toro mi è rimasto nel cuore e un derby con la Juve di Conte me lo giocherei volentieri». Un velo di nostalgia per l’Italia e per il nostro calcio? «Neanche un po’. Finché da noi si penserà che se la squadra non fa risultati è tutta colpa dell’allenatore e solo lui deve pagare per tutti, allora vuol dire che il sistema va rifondato». La sua “rifondazione albanese”, intanto, procede e a gonfie vele. «Devo lavorare ancora sulla mentalità. Il loro limite è l’indolenza, è raro che prendano un’iniziativa personale. Al tempo stesso ho un patrimonio a disposizione, un entusiasmo contagioso che ricorda quello degli italiani degli anni ’60. Il popolo, i tifosi, hanno una fede cieca in quello che stiamo facendo e si rendono conto, al di là dei risultati, della notevole e rapida crescita tattica che c’è stata». L’Albania che piace e che finalmente vince, ha trascinato nella lontanissima Oslo 4mila sostenitori. «Ma erano quasi tutti emigrati – precisa il ct –. In Germania e in Svizzera abbiamo giocato come fossimo in casa, lo stadio era per metà albanese. Il pubblico ci aiuta tanto e adesso ci crede quanto noi, una qualificazione ai Mondiali non è più un’utopia». Il massimo, per De Biasi sarebbe arrivare a Rio e sfidare gli azzurri di Prandelli: «Il miglior tecnico possibile per un Paese di 60 milioni di ct… Chi ruberei a Cesare? Balotelli, De Rossi e Pirlo. Già solo con questi tre, l’Albania davvero potrebbe pensare in grande».