giovedì 4 gennaio 2024
La Abrahamic Family House di David Adjayead Abu Dhabi riunisce sinagoga, chiesa e moschea. Un dibattito “in itinere” sull’altare apre a riflessioni che dal progetto muovono verso temi fondamentali
L'interno della chiesa di San Francesco, nella Abrahamic Family House ad Abu Dhabi, su progetto di Sir David Adjaye

L'interno della chiesa di San Francesco, nella Abrahamic Family House ad Abu Dhabi, su progetto di Sir David Adjaye - Adjaye Associates

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Cinquanta gradi all'ombra, un cantiere arroventato e frenetico, il sole che invade tutto di una luce quasi insopportabile. L'isola Saadiyat è un concentrato di architetture sorprendenti che rendono il Cultural District un laboratorio a cielo aperto di estetiche urbanistiche ipertecnologiche. In questa Abu Dhabi di meraviglie come il capolavoro mesmerico della cupola che ricopre il Louvre degli Emirati Arabi rileggendone gli spazi, sono stato coinvolto nel processo finale di una realizzazione unica, la Abrahamic Family House, casa di tre case nell’intenzione, più realisticamente quartiere di tre isolati. Una moschea, una chiesa cattolica e una sinagoga. Il progetto dell’architetto ghanese naturalizzato britannico Sir David Adjaye attinge la sua identità dall’impianto simbolico di ciascuna fede. Le tre strutture hanno in comune un impianto geometrico cubico e dimensioni analoghe.

La AFH è un complesso architettonico di grande impatto, foriero di dibattito: quale è la quota di sacro intesa come cifra delle realizzazioni? Intendo il sacro che ispira, simbolo che non è semplicemente didascalia e casa ma contenuto, in particolare nel caso specifico della chiesa data la valenza dei simboli liturgici nel contesto cristiano. Nell’estate del 2022 mi è stata chiesta una consulenza al riguardo anche se a cantiere avanzato e con il progetto di Adjaye comprensibilmente blindato a modifiche di sorta che non venissero da lui stesso. Limitazioni senza importanza, l’esperienza poteva essere, e lo è stata, un ulteriore banco di prova per le mie idee riguardo il dialogo controverso e mai risolto tra architetture, simboli e contenuto.

I tre edifici interpretano forme decisamente autonome nel corpo di un progetto unico e coerente. Durante la visita al cantiere in fase di completamento, ho avuto occasione di scambiare qualche opinione con Adjaye e constatare la raffinatezza estrema di soluzioni non comuni, che esulavano dagli standard parametrici o per converso minimalisti che si praticano un po' ovunque come maniere supplenti la mancanza di una ispirazione autentica capace di prendere forma. Ciascuna delle costruzioni si sviluppa intorno alla idea forte che l’architetto ha scelto tra le chiavi formali delle tre religioni. Cubi articolati che del cubo diventano scomposizione e per certi versi negazione, annullamento della costrizione che deriva da una idea di geometria rigida, verso una idea di corpo vivo in continuo farsi. La fede come architettura in fieri della forma. Le soluzioni sono magistrali, e si servono di materiali eterogenei in alcune parti strutturali, le strutture metalliche della sinagoga, forse un po' pesanti, e la pioggia di legni sospesa sull’aula della chiesa cattolica, elemento presente in altre realizzazioni dell’architetto.

Credo che il climax formale di tutta questa operazione in bilico tra sintesi e reinvenzione sia la moschea.

Si dirà che dipende dalla collocazione geografica e dalla sua influenza. È vero il contrario. Proprio questi fattori rendevano la sfida estremamente ardua. Ad Abu Dhabi qualche chilometro dopo il centro città seguendo la costa, si trova la Grand Mosque che in termini di perfezione artigianale , raffinatezza decorativa, potenza architettonica, spirito di grandeur oltre ogni immaginazione è a dir poco stupefacente. La valutazione in termini poetici è un’altra cosa, ma quelli sono i dati oggettivi con cui fare i conti. Uno sfoggio di maestria difficilmente superabile.

Sir Adjaye, pur avendo a disposizione una area minima rispetto a quella della sorella maggiore, è riuscito nell’impresa di condensare e distillare una sintesi formale di moschea capace di tenere il confronto e questo senza ricorrere, non necessariamente uno svantaggio, ad espedienti formali appariscenti. Una fusione curiosa di architettura organica e spunti razionalisti dà vita ad arcate acute non canoniche che scandiscono lo spazio in una leggerezza di rara perfezione. L’intarsio è nell’idea, forza di un congegno estetico indifferente a materiali preziosi e artigianalità eccelse.

Tanto efficace da farti chiedere se sia più moschea questa di quella, domande oziose forse, ma non del tutto prive di significato.

Nella AFH tutto era sorprendente. Il senso della mia presenza in quel contesto aveva però a che fare con un altro tema, non meno importante di quello strettamente architettonico: la peculiarità dei simboli liturgici la cui estetica richiede uno sforzo ulteriore rispetto alla raffinatezza formale. Dare corpo a un incontro, non realizzare semplicemente oggetti di contemplazione estetica. Se per la moschea e la sinagoga il luogo stesso racchiude in sé la forza del simbolo, per la chiesa cattolica, su cui ero stato chiamato a riflettere, il fulcro simbolico è rappresentato dagli elementi liturgici. Se il presbiterio di una chiesa non incarna la forza e la domanda di questo incontro, non vi è architettura che possa rimediare.

Ricordo che Sir Adjaye, nel bel dialogo che abbiamo avuto al singolare tavolo condiviso con sceicchi, sultani, ingegneri internazionali e autorità religiose, a fronte di queste mie considerazioni sosteneva che nella sua chiesa tutta l’aula era altare. Una idea affascinante ma altra dalla concezione per cui l’altare è il fulcro, l’evento, il simbolo della persona da cui irradiano tutte le forze simbolico-liturgiche e in ultima analisi la struttura della chiesa stessa. La grandiosità della rivelazione mantiene salda la integrità di ciascuno nella singolarità che ha ricevuto e che non gli verrà sottratta dal compimento, come avviene per certe visioni new age. Il motivo della carne è genesi dell’altare, unica ragione vera che differenzia la visione cristiana dalle “cugine” abramitiche.

Nello specifico gli elementi liturgici pensati da David Adjaye, e non poteva essere altrimenti , rispondevano a uno sforzo di avvicinamento tra chiesa, moschea e sinagoga verso una armonia complessiva. Ma quella idea di armonia stilistica può finire per cancellare l’incidente che interroga, che inquieta, che sposta il baricentro di un equilibrio necessariamente dinamico e inquieto perché vivo. I simboli si declassificano ad arredi, forme gradevoli di forma estranea all’idea cristiana di “scandalo” l’unico a generare vita vibrante e a trasmetterla. Quando ho mostrato alcune riflessioni estetiche sullo schermo, Adjaye ha commentato con «dobbiamo armonizzare». A titolo di provocazione dico che se per il resto della struttura questo ha un senso, nel caso dei simboli più che armonizzare serve recuperare la pietra angolare scartata, il discrimine che apre una crepa nel quadro della “abitudine formale”.

Raul Gabriel, idee per il presbiterio della chiesa di San Francesco, nella Abrahamic Family House

Raul Gabriel, idee per il presbiterio della chiesa di San Francesco, nella Abrahamic Family House - Raul Gabriel

Nel breve tempo concesso ho prodotto alcune idee sul presbiterio, non perché vi fosse una possibilità di realizzazione in un progetto già contrattualmente chiuso, ma per dare un corpo visibile alle mie perplessità. Il confronto non è stato del tutto inutile. Nel progetto finale sono comparsi sul presbiterio i legni che avevo immaginato come la palizzata di un ambone che si scombina in un disordine vitale riletto da una parola cristallina che si insinua rompendo finalmente l’armonia. Sono comparsi a reggere la pietra dell’altare e a comporre una sorta di credenza liturgica, ma sono comparsi, figli di un dialogo appena accennato che speriamo la Abrahamic Family House sia in grado di portare nel futuro.

Il presbiterio della chiesa di San Francesco, nella Abrahamic Family House

Il presbiterio della chiesa di San Francesco, nella Abrahamic Family House - Adjaye Associates

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