Nei primi anni 70 (del secolo scorso) si è svolta la nostra campagna scolastica per la creazione del Museo Contadino. Eravamo convinti che "salvare la memoria" fosse importante sia per i ragazzi sia per le comunità dell'Appennino. Seguivamo il consiglio dell'antropologa Annabella Rossi: «Raccogliete le foto, i documenti scritti, gli oggetti, gli attrezzi di cui le famiglie stanno per liberarsi: percorrendo l'Italia meridionale con Ernesto De Martino, arrivavamo il giorno prima che un rogo distruggesse la "roba vecchia", ma – spesso – il giorno dopo».
Saltavano ai nostri occhi, durante l'esplorazione di case e "casoni", gli spazi e gli strumenti dedicati all'economia del castagno. Gli essiccatoi, una volta sopra la cucina, erano ormai costruzioni a parte. Nei ripostigli stavano i sacchi in robusta tela di Olona, più volte rappezzati, usati per battere sui ceppi di legno i frutti essiccati e liberarli dalla doppia buccia. Un mezzo tronco scavato serviva per la cernita: toccava alle donne separare la parte destinata all'alimentazione umana da quella destinata all'allevamento del maiale. Da tempo la battitura si faceva con macchine apposite, che a gennaio passavano di casa in casa trasportate a mano. Era uno spettacolo suggestivo vederne una in funzione, con la nuvola di frammenti viola che, calcolando bene il vento, andavano a depositarsi sui prati circostanti.
L'importanza alimentare della castagna si era molto ridotta, ma la farina – tenuta pressata nei bancali – era ancora usata in molte ricette. Chiesi a Sergio, un ragazzo dall'intelligenza acuta, ma reso scontroso dall'isolamento, di fare una descrizione del lungo processo che porta dai frutti ai cibi. Ne nacque un piccolo capolavoro di orgoglio produttivo e di uso appropriato dei termini. Mentre la ricerca continuava, scoprivamo con quanta abilità si facevano col legno di castagno le travi del tetto e le tavole dei pavimenti; e poi le madie, i tavoli, gli armadi. Era documentabile il "vezzo montanaro" di trarre da un tronco vuoto all'interno, arnie per le api, barili per il vino, contenitori per il sale, grandi recipienti per le granaglie. Si raccolsero notizie sulla scalvatura (la potatura dei rami secchi), le diverse varietà dei frutti, gli innesti, l'utilizzazione multipla (compreso taglio dell'erba e raccolta dei funghi) del castagneto. Realizzammo anche un "calendario del castagno" con tutte le tradizionali operazioni distribuite mese per mese, compresi i giochi dei bambini e la costruzione di trombe e flauti con la corteccia giovane.
All'inaugurazione del Museo Contadino (1975), qualcuno propose di fare una "festa della castagna" che, a fine ottobre, concludesse il periodo della raccolta e riunisse in un ultimo appuntamento prima dell'inverno la comunità e gli ospiti stagionali. Il simpatico "rito" è stato adottato un po' ovunque. La nostra festa, nel 2016, è arrivata alla quarantaduesima edizione. Al pranzo collettivo si aggiungono la preparazione delle caldarroste, un mercatino di prodotti locali, un concerto di musiche popolari. Nel 1983 la Rai ha realizzato un video – regista Marco De Poli – che è una piccola enciclopedia sull'argomento. Numerose le pubblicazioni e gli studi universitari di archeologia forestale. Alcuni castagneti sono stati recuperati, molti altri sono in attesa di saggi interventi italo-europei. La farina di castagna ha di nuovo un mercato, non solo in Italia ma anche all'estero: in Norvegia si usa per l'impanatura del pesce. Sono oggi in funzione essiccatoi familiari e un essiccatoio industriale in Riviera. Non viviamo in un parco e non siamo un'area protetta. Forse però siamo un piccolo esempio di come si può far vivere il patrimonio rurale.
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