mercoledì 3 febbraio 2016
COMMENTA E CONDIVIDI
Non chiama mai la sua bimba per nome. Quasi a proteggerla da quella battaglia legale senza fine che la vede contrapposta a una coppia omosessuale che «mi ha strappato via della mani mia figlia dopo la nascita», anche se il contratto di donazione degli ovociti e dell’utero «stabiliva con chiarezza che io sarei stata sempre la madre e avrei avuto un ruolo nella sua vita». Elisa Anne Gomez – 46 anni, pittrice, insegnante di danza e terapeuta per disabili – prova a mostrare sicurezza quando racconta, su una poltrona all’ingresso del Senato, la sua storia drammatica di madre surrogata per necessità. Tra poco ripercorrerà, in un incontro organizzato dall’associazione ProVita, quasi dieci anni di ingiustizie, inganni e assurdità giudiziarie nel civilissimo Minnesota, «uno Stato in cui la pratica dell’utero in affitto non è vietata, ma neppure regolamentata». Dunque, far west. Ma prima, da donna a donna, occhi negli occhi, Elisa non si sottrae alla domanda forse più banale del mondo: perché lo hai fatto? «Mi hanno manipolata, ingannata, illusa che avrei visto regolarmente mia figlia – dice scostandosi i lunghi capelli neri dalle spalle – non sapevo in cosa mi stavo cacciando». Una scelta «dettata dalla disperazione – ammette – che adesso mi perseguita». Eppure aveva terribilmente bisogno di soldi, anche per mantenere i suoi primi due figli, dopo che il marito l’aveva lasciata. «L’utero in affitto non dà diritti – continua –, riduce in schiavitù». La lucidità si trasforma in voce rotta dal pianto quando con la mente torna al 2006. Tre lavori, due bambini da mantenere, lo sguardo che in Internet si ferma sul forum in cui si cercano donne disposte a vendere il proprio corpo per soddisfare il desiderio di maternità/ paternità altrui. Poi la scelta di una coppia gay, «da subito gentilissimi e concordi sul fatto che io dovevo continuare a essere la madre». Un atteggiamento cambiato subito dopo il parto, quando hanno approfittato della sua vulnerabilità per «scaricarmi, in lacrime, dinanzi casa mia – è la sua terribile testimonianza – andando via con mia figlia, anche se sul certificato di nascita i loro nomi non comparivano». Un «rapimento» a tutti gli effetti, non riconosciuto però dalle autorità giudiziarie americane a cui si è rivolta subito «per veder riconosciuti i diritti concessi a qualsiasi madre». Invece della gioia della maternità Elisa era «sola, con un dolore non previsto che ti lacera dentro, come per un lutto». Poi, paradosso nel paradosso, un giudice «che apparteneva alla comunità Lgbt, e che ora non fa più questo mestiere per comportamenti poco etici – continua – ha stabilito che ero solo un 'donatore di materiale genetico'». Non madre biologica, però. E, pur concedendole per 60 giorni di poter vedere la figlia al massimo otto ore, «mi ha costretta a pagare un assegno di 600 dollari al mese». Così, a fronte degli 8mila dollari ricevuti per aver partorito la bambina, Elisa ne ha già versati 22mila di mantenimento, senza contare quelli spesi per la battaglia legale. E senza poter vedere da quasi sette anni la bimba, con in più «obbligo di censura » che impedisce alla donna di raccontare la sua storia negli Usa. Sentenze d’appello che ribaltano il verdetto, mediazioni fallite e «la prova, attraverso i verbali della polizia, che la coppia omosessuale è spesso troppo ubriaca per prendersi cura della mia piccola », non sono serviti a molto. L’ultima udienza in tribunale nel 2014 «ha addirittura alzato per me il mantenimento », pur lasciando per continuità affettiva l’affidamento della piccola ai 'due papà'. «Mi batterò fino all’ultimo – sono le sue ultime parole –, perché quella bambina è e sarà sempre mia figlia ». Poi una nota politica: «La stepchild adoption produrrà tante storie come la mia». Con il ddl Cirinnà, infatti, ricorda il senatore Lucio Malan (Fi), «si rischia di legalizzare tutto questo anche in Italia». Allora la domanda che dovrebbero porsi i parlamentari, secondo il presidente di ProVita Antonio Brandi, è «se vogliono dare nuova linfa al mercato di donne e bambini rappresentato dalla maternità surrogata ».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI