La carovana è composta da 22 persone. Tranne Hamira, che è qui con quattro figli e senza il marito che l’aspetta ad Oslo, nessuno ha più di 25 anni. Otto uomini, il resto donne e bambini. Non c’è tempo per riposare, mancano poche ore all’ultimatum di Orban, quando la frontiera verrà sigillata. Il leader è Omar, barba fitta e lo sguardo di chi ne ha sempre abbastanza. «Fratello, se è vero che il tuo Dio è anche il mio, stasera deve farci vincere insieme», si augura Hassan, quindici anni e una faccia da giamburrasca. Una volta l’imam lo ha cacciato dalla madrassa, la scuola annessa alla moschea vicino Aleppo. «Lui insegnava che il jihad è quello che dobbiamo combattere contro gli infedeli. Allora gli ho chiesto come si chiama la guerra di musulmani contro musulmani che ci sta sterminando tutti». Forse esagera quando, trattenendo gli sghignazzi, racconta di avere rischiato il linciaggio. «È tutto vero», scandisce la sorella traducendo con un cenno del capo un’espressione rassegnata e benevola della madre.
Molti taxisti serbi per cento euro a corsa (ma altri lo fanno gratis) percorrono i quindici chilometri che distanziano il campo di raccolta di Kanjiza dalle radure di granturco attraversate da un binario morto e delimitate dal filo spinato magiaro. Camminiamo da un’ora e c’è anche una bella luna. Un aiuto per non inciampare, ma anche un’arma in più per le guardie di confine. Non si fa in tempo a pensarlo, che Omar ordina di stare giù. Saranno trecento metri, forse meno. Da dietro un terrapieno arrivano i riflessi di una luce azzurra. Vuol dire due cose. Primo: il muro di Orban è a un passo. Secondo: il confine è sorvegliato. La buona notizia, secondo Omar, è che la pattuglia va nella direzione della ferrovia, dove non si contano i tentativi di attraversamento, e non verso il fiume.
Prima della partenza la carovana di fuggiaschi si è data poche ma chiare regole: sigarette, torce e telefoni spenti, anche se vuol dire privarsi del gps; nessuno deve essere lasciato indietro; in caso di guai con la polizia, prima proteggere le donne e i bambini. «E se qualcuno vuole pregare, lo faccia in silenzio e con insistenza», chiude Yasar, l’aspirante matematico curdo di Kobane, che prima di incamminarsi aveva assicurato di non credere in niente, «solo nella logica».Finalmente la scia luminosa si disperde in lontananza. Fino a quando Sara, di neanche tre mesi, comunica alla maniera dei lattanti di avere fame. Proprio ora, a due passi da chissà quanti soldati. La madre sapeva che sarebbe accaduto e prima ancora che la implorino di tappare la bocca alla piccolina, Sara già succhia il latte da un biberon nuovo di zecca che una famiglia serba di Kanjiza gli ha regalato con una scorta di pannolini e latte caldo. Sazia di poppate e coccole, si riaddormenta.Dopo un tornante tracciato dai mezzi agricoli, ecco il muro. I pali d’acciaio non sono ancora arrivati fin qui, e il filo spinato, complice il buio, fa meno paura. Non arriva neanche ai due metri d’altezza. La cesoia recuperata chissà come da Yasar il curdo rimane nello zaino, perché qualcun altro è passato da qui lasciando delle coperte con cui coprire gli aculei. Sembrano antilopi, come si fossero allenati tutta la vita per questo salto. In un paio di minuti siamo tutti dall’altra parte.È ora di rimettersi in marcia, quando Hassan sbuca da sotto una coperta. Sfidando i "grandi", l’adolescente di Aleppo aveva acceso lo smartphone. «La polizia ungherese sta trasferendo i rifugiati del campo di Roszke sui bus per Budapest. Non prendono le impronte», annuncia. Si cambia rotta. Roszke è dietro la boscaglia, al massimo venti minuti a piedi. Omar si fa il segno della croce: «Lo dicevo che l’Ungheria è un Paese cristiano».