La foto poggiata nella sua semplice cornice su di un tavolino rimanda il sorriso diventato familiare di Luciano Caiazzo, l’organizzatore della gita terminata tragicamente domenica sera in una scarpata dell’Irpinia. La casa che Luciano aveva lasciato venerdì scorso, per non farvi più ritorno, si confonde tra le altre sorte disordinatamente sul litorale che da Pozzuoli va verso il Casertano fino a Gaeta. Una lunga e larga striscia di sabbia e di terra, di pinete e di macchia mediterranea. Nella parte flegrea deturpata dal cemento e dalle discariche, dove la storia di ciascuno si smarrisce nell’intrico di strade e di palazzi anonimi. La storia della Campania e dell’Italia anche qui perde di senso e di valore se la tomba di Scipione l’Africano, proprio l’eroe possessore dell’elmo che cantiamo nell’inno nazionale, e l’intero complesso archeologico di Liternum versano nell’abbandono e nel degrado.Licola Mare è la porzione di questo territorio che appartiene a Pozzuoli. Luciano Caiazzo vi abitava con la famiglia, costretta a trasferirsi qui dal centro storico di Pozzuoli dopo il bradisismo degli anni Ottanta. Morto il papà con lui sono rimaste la mamma oggi ultrasettantenne e due sorelle. Una famiglia unita che adesso si trova a fare il conto con la morte inaspettata, improvvisa, terribile di Luciano. In fondo al precipizio domenica sera si sono sfracellate vite e speranze, anche quelle di chi non era sul bus turistico. È l’altra faccia della tragedia. È il “dopo” altrettanto pauroso. Perché con Luciano potrebbe essere andata via anche la vita dignitosa così come era prima dell’incidente. Lo sussurra la sorella Anna, timidamente eppure incoraggiata e confortata dalle parole del vescovo Gennaro Pascarella che nell’omelia durante i funerali aveva chiesto con forza ed insistenza solidarietà concreta per chi dall’incidente è stato privato dei propri cari e in molti casi anche del reddito assicurato dal lavoro o dalla pensione delle vittime.Luciano lavorava come salumiere al Marketpiù, un po’ emporio un po’ grande magazzino, poco distante da casa. La sua paga si aggiungeva alla pensione minima della mamma e assicurava un vivere decoroso, anche se sacrificato. «Era speciale – ricorda la sorella. – Non faceva pesare le rinunce ed era il simbolo di Licola». Quando a giugno gli amici, tra cui c’erano molte delle persone che si trovavano con lui sul bus, organizzarono la festa a sorpresa per i suoi 40 anni, Luciano si commosse commentando contento che «nella sua vita aveva festeggiato il compleanno solo due volte: a 18 anni e poi a 40».Il timore è che quando si spegneranno riflettori e microfoni, quando l’incidente di Monteforte Irpino sarà solo un numero in una casistica, ci si possa dimenticare delle vite dei sopravvissuti, vite già faticose, che rischiano di scivolare in un altro abisso, più mortificante. «Lavoro» chiede Anna. «Fatelo per i nostri morti. Ma il lavoro vero, quello che manca, non quello arrangiato: un giorno sì e dieci no». Eppure Licola potrebbe essere la Rimini o la Riccione della Campania, fonte di sviluppo economico, ma tutti i progetti si sono arenati davanti all’incompetenza politica troppo spesso diventata collusione con il malaffare e l’abusivismo. L’appello di questa famiglia provata vale per tutti quelli che vivono qui e di più per le persone che da domenica devono affrontare il dolore per la morte dei familiari e l’incertezza di un futuro oscuro: «Non sono i sacrifici che ci spaventano, ma la paura di non poterci rialzare dopo tanta sofferenza e camminare con la testa alta».<+copyright>