martedì 30 giugno 2015
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Che la ’ndrangheta sia presente in Australia non è certo una novità. Si prova un senso di vertigine leggendo le notizie contenute in un’inchiesta durata un anno fatta da giornalisti. Potenza delle inchieste sul campo! Se facessimo finta di non sapere che si tratti di cittadine australiane, saremmo indotti a pensare di essere in Calabria o in una regione del Nord, perché esattamente come nelle realtà italiane anche lì c’è una politica infiltrata, a destra come a sinistra, c’è l’uso delle minacce o della violenza, ci sono favori a mafiosi, ci sono uomini delle istituzioni che girano la testa dall’altra parte o fanno finta di non capire.Ci sono anche omicidi che sono rimasti impuniti. Come quello del deputato liberale del Nuovo Galles del Sud Donald Mackay, avvenuto nel luglio del 1977 quando scomparve dal parcheggio di un hotel e non fu più ritrovato. L’importanza di quell’omicidio fu segnalata da Nicola Calipari in una relazione del 1988 nella quale era valutata anche l’importanza dei rituali di iniziazione ritrovati in Australia. Se le autorità australiane avessero fatto tesoro delle parole del funzionario della polizia italiana d’origine calabrese, tante cose non sarebbero successe. Poi ci fu l’omicidio del vice-capo della polizia Colin Winchester, il 10 gennaio del 1989. In entrambi i casi i sospetti caddero su uomini di ’ndrangheta, ma non ci furono prove sufficienti per una condanna.La questione ’ndrangheta riemerge nel 2000 con l’arresto di Francesco Madafferi, originario di Oppido Mamertina, trovato in possesso di un permesso di soggiorno scaduto da dodici anni. Nel frattempo si era sposato e ora aveva due figli nati in Australia. La legge, in questi casi, prevedeva l’espulsione ma la comunità calabrese avviò una campagna a favore del compaesano insistendo su motivi umanitari e sul fatto che oramai l’uomo aveva una famiglia con moglie australiana e figli australiani. Il ministro dell’Immigrazione del tempo, nonostante il clamore, ne decretò l’espulsione, ma ostacoli formali bloccarono tutto fino al 2005 quando il nuovo ministro dell’Immigrazione, la senatrice Amanda Eloisa Vanstone, decise di annullare il decreto di espulsione suscitando un vespaio di polemiche perché, scrisse il giornale The age di Melbourne, la decisione della ministra era intervenuta solo perché i sostenitori di Madafferi avevano finanziato il Partito liberale. La Vanstone replicava affermando di non aver mai ricevuto donazioni dai sostenitori di Madafferi. Le donazioni ai partiti, a tutti i partiti, dunque non sono una novità e ricompaiono anche nell’inchiesta giornalistica di questi giorni. Davvero la storia non è più magistra vitae, come si diceva un tempo. Ma, a fare a meno dei suoi insegnamenti, si incorre in brutte sorprese.La ’ndrangheta si riaffaccia nelle cronache italiane ed australiane nel marzo del 2011 perché Domenico Antonio Vallelonga, detto Tony, avrebbe discusso di assetti dei clan a Siderno con un noto esponente calabrese. Vallelonga è stato sindaco di Stirling dal 1997 al 2005 ed è stato esponente di vari consigli regionali. Quello che accade in Australia ha davvero una lunga storia (parte dagli anni trenta del Novecento) ed è simile a quello che accade altrove. È come se gli ’ndranghetisti, lasciata la Calabria per emigrare, abbiano bisogno di clonare la struttura inventata nella terra d’origine, di ricreare le modalità non solo organizzative ma di vita, di relazione, di riti, quasi per avere la sensazione di essere ancora nei loro paesi. E di comandare ancora, nei luoghi d’origine e ora in quelle d’emigrazione.*Docente di Storia della criminalità organizzata all’Università Roma Tre
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