martedì 5 maggio 2015
​Monsignor Perego (Migrantes) lancia l'idea: possibile una forma di affido per i 10mila "minori non accompagnati" sbarcati sulle nostre spiagge.
Il Viminale: ora servono 9mila posti letto, ogni provincia ne accolga 100
COMMENTA E CONDIVIDI
Le famiglie italiane possono diventare «risorsa e speranza » per tanti piccoli minori non accompagnati sbarcati sulle nostre spiagge. La proposta di cui parla con convinzione il direttore della Fondazione Migrantes, monsignor Gian Carlo Perego, è «fattibile, sperimentata » e potrebbe regalare un futuro a molti dei circa 10.000 migranti under 18 del Belpaese. «Uno degli aspetti sul quale si sta riflettendo anche nel mondo ecclesiale – spiega Perego – è una forma di affido che chiama in causa i nostri nuclei familiari. La legge italiana prevede questa possibilità soprattutto per i minori non accompagnati e richiedenti asilo ma attualmente questa strada è sottovalutata e quindi sottoutilizzata». Eppure, le famiglie pronte a intraprendere un simile percorso, evidenzia il direttore di Migrantes, potrebbero anche essere sostenute «con una parte del contributo attualmente elargito ai centri di accoglienza». E poi c’è quella sorta di 'valore aggiunto' fondamentale per bambini e adolescenti: «Gli ospiti troverebbero un ambiente, è il caso di dirlo, familiare, quindi più disponibile, adatto a tutelarli». Di esempi ce ne sono. L’associazione AccoglieRete di Siracusa, per esempio, è nata per promuove il ruolo di tutore legale per i minori stranieri non accompagnati. «Ne ospita 60, senza ricevere nulla da nessuno – rileva monsignor Perego –. E non è l’unica, visto che Servizi sociali e tribunali per i minori si rivolgono già a soggetti di provata affidabilità». Più in generale, includendo cioè tutti i migranti, la sola rete ecclesiale – Caritas, Migrantes, istituti religiosi (maschili e femminili), associazioni di ispirazione cristiana – ha aperto le porte a 10.000 persone. In più, aggiunge Perego, ci sono altre realtà che hanno messo a disposizione luoghi e strutture. «Come i seminari: un esempio è quello di Fermo». O le singole parrocchie, su tutto il territorio nazionale. «È così che facciamo nostro l’invito all’ospitalità che il Papa ha rivolto a tutta la Chiesa», proprio come accaduto in altre emergenze di rifugiati e richiedenti asilo. «Successe per i kosovari e per gli albanesi». Oppure «nel dopoguerra, quando alcune piccole e grandi città accolsero migliaia di ebrei per oltre un anno». Oggi come allora anche i religiosi restano in prima linea. «Non siamo stati a guardare, né abbiamo fatto orecchie da mercante all’invito paterno e pressante di Papa Francesco ad aprire le nostre case, i nostri conventi – dichiara padre Luigi Gaetani, presidente della Conferenza italiana dei superiori maggiori –. Quando, come presidente della Cism, ho rivolto l’appello ai provinciali d’Italia, sapevo che ognuno si sarebbe prodigato per rendere fattivo quell’invito, non solo per il bene e l’obbedienza ecclesiale, ma anche perché da sempre facciamo delle nostre case dei luoghi di umanità accogliente e fraterna». Del resto, «i conventi da sempre sono un approdo per l’umanità, sia per i frati che li abitano, come per tutti quelli che vi arrivano e chiedono una parola, un panino, una coperta, un sorriso, un po’ di luce e di pace». La vocazione dei religiosi è dunque «come quella degli emigranti. Anche noi – riflette padre Gaetani – siamo gente che ha lasciato e continua a lasciare casa fratelli, amici, gli stessi luoghi dell’infanzia e della giovinezza». Un aspetto che ha un duplice significato: «Rivela che la nostra casa è altrove e che quella che viviamo, qualunque essa sia e in qualunque luogo si trovi, è sempre penultima. Questa itineranza da emigranti ci fa sentire solidali con tutti coloro che cercano una casa, una terra migliore, un pezzo di vita possibile».  In conclusione, commenta il presidente della Cism, «non si può fare nulla se manca questa capacità di discernere» e «se non si è in grado di capire la condizione esistenziale di un 'emigrante', di scrutare, vedere oltre, dentro la storia di ogni uomo, di ogni popolo, se non si arriva a stare dentro i solchi della sua storia, imparando a vivere la prossimità con la carne, con quella sofferente, degli ultimi, con la carne delle periferie esistenziali e geografiche che, così spesso, è bruciata dalla indifferenza più che dal sole cocente del Sud del mondo».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: