mercoledì 11 dicembre 2013
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Una società in cui bianchi e neri abbiano gli stessi diritti, le stesse aspirazioni e possibilità, e tutto ciò senza violenze. Il principio di Nelson Mandela è stato chiaro fin dall’inizio. Ma questa “chiarezza” racchiude un paradosso. Come ricordava il teologo anglo-sudafricano e grande amico del leader scomparso, Albert Nolan, «la risposta più semplice è che abbiamo trasformato Madiba in un’“icona”. In altre parole, qualcuno da ammirare e riverire, ma non da imitare».Vent’anni dopo, il Sudafrica governato dall’African National Congress che fu di Mandela (unico tra i grandi “padri africani” ad aver fatto un solo mandato presidenziale, tra il 1994 e il 1999) è proprio così. E il futuro non si annuncia facile. Johannesburg, la principale città, ne è un palese esempio: in pochi chilometri attraverso le autostrade urbane si passa, quasi senza soluzione di continuità, dai ricchissimi e superprotetti quartieri bianchi alle bidonville delle baracche con i tetti di lamiera ondulata. Con Mandela è nata la speranza per i neri di potercela fare, di giungere dignitosamente alla fine del mese e di far studiare i figli. Una “piccola borghesia nera” che però stenta a realizzarsi.Un cammino lungo e difficile, dopo secoli di segregazione, che è stato però reso forse ancora più ripido dai leader della stessa Anc, non di rado caduti nella tentazione della corruzione. Una prova su tutte? I fischi che ieri hanno accolto allo stadio il presidente Zuma. In Sudafrica, ancora oggi, bianchi e neri non si mescolano, in una sorta di legge non scritta. Abitano quartieri diversi, le coppie miste sono pochissime e sono i “black people”, spesso, a fare i lavori meno remunerativi e meno ambiti. Negli hotel, nei centri commerciali e nelle stazioni della metropolitana i vigilantes, ovviamente neri, sono numerosissimi. Il tasso di delinquenza resta incontenibile. Il 40% delle famiglie di neri guadagna 40 dollari mensili a testa, i bianchi mediamente sei volte di più. E, paradossalmente – sostengono diversi analisti – una Anc diventata troppo forte rappresenta un ostacolo allo sviluppo, perché manca un’opposizione seria che pungoli la maggioranza. Le tensioni razziali, poi, non sono scomparse, e casi di violenze da parte della polizia riemergono con regolarità. Qualche studioso e politico “super partes” si è spinto anche oltre analizzando le diseguaglianze e ha parlato di segnali di una possibile «primavera sudafricana».È sbagliato, ovviamente, etichettare come un fallimento l’azione della classe dirigente. L’apartheid non tornerà mai più e numerose riforme avviate da Mandela sono certamente irreversibili. Quello che preoccupa, dicono molti, è però la radicalizzazione di alcuni ambienti dell’Anc stessa. Radicalizzazioni che trovano alimento nelle divisioni etnico-claniche tipiche della società sudafricana.Sono quelli che accusano Madiba non solo di avere tradito gli ideali, rinunciando alla violenza e puntando sulla riconciliazione tra bianchi e neri. Ma che puntano il dito anche sui suoi successori per avere aperto a un certo liberalismo in economia. Evitando di nazionalizzare settori essenziali per il timore di perdere investitori stranieri o concentrazioni di potere e ricchezza. Come quella del sottosuolo, delle sue immense risorse auree e delle miniere segnate anche recentemente dagli scontri per elementari rivendicazioni salariali. Paradigma della nazione Arcobaleno, che resta terribilmente in bianco e nero. Nonostante il sogno di Madiba.
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