mercoledì 28 maggio 2014
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Cento morti solo ieri, metà dei quali civili, incursioni aeree sopra Donetsk, caccia ed elicotteri di Kiev che sorvolano Lugansk, il Donbass ribelle sotto l’urlo dell’esercito ucraino, quattro osservatori dell’Osce nelle mani delle milizie filo-russe mentre a Kharkov si recuperano le salme del fotoreporter italiano Andrea Rocchelli e del suo collega Andrej Mironov. Difficile continuare a chiamare quella ucraina un "guerra a bassa intensità". Difficile non definirla una guerra civile. Difficile non pensare – su piccola scala (per ora) – alla Siria e alle conseguenze che lo scontro fra la Novorossiya (la fantomatica regione che si stende dal confine orientale ucraino fino a Odessa e che sotto gli zar faceva parte dell’immenso reame russo) e l’Ucraina con capitale Kiev potrebbe comportare, vista la posta in gioco, non ultimo il fatto che il Donbass non solo ospita il 10% della popolazione ucraina, ma concorre per il 20% al prodotto interno lordo ed è a tutti gli effetti la locomotiva che traina l’economia nazionale. Attenzione però a non lasciarci ingannare dalle apparenze. E nemmeno dalla foga con cui milizie e partigiani autoproclamatisi filo-russi preannunciano secessioni e repubbliche popolari indipendenti. Attenzione, perché per quanto finora si sia mosso con calcolata astuzia in mancanza di un’autentica strategia, Putin sa bene che la perfetta quasi chirurgica occupazione militare con cui si è aggiudicato l’annessione della Crimea senza praticamente colpo ferire non poteva essere replicata con le stesse modalità nell’Ucraina orientale. E sa bene anche che il prezzo in termini di vite umane (di cui verosimilmente gli importa relativamente) ma soprattutto la reputazione internazionale della Russia e le possibili sanzioni che ne deriverebbero non gli consentono un’invasione del Donbass.Da quarantotto ore però qualcosa è cambiato anche a Kiev e Putin si è trovato un imprevisto alleato. Le elezioni presidenziali hanno visto il trionfo di Petro Poroshenko, "re del cioccolato", oligarca scaltro e disinvolto, sostenitore di Maidan e dell’integrazione con la Ue ma figura pragmatica, sufficientemente cinica da dosare con perizia i raid aerei sulle zone in mano alle milizie filo-russe promettendo al tempo stesso che «le operazioni contro i terroristi – così li definisce – dureranno ore, non giorni». Un messaggio chiarissimo rivolto a Mosca che Putin e Lavrov hanno immediatamente colto e che sostanzialmente conferma il fatto che con Poroshenko si può trattare. Abile e ambiguo come ogni vero oligarca, il neopresidente si è dichiarato immediatamente contrario ad un’adesione di Kiev alla Nato, sottolineando come la Russia sia «un vicino senza il quale non è possibile garantire la sicurezza dell’Ucraina». Miele per il duro cuore di Putin, seguito però da una spruzzatina di veleno, allorché Poroshenko ha precisato che non riconoscerà né il referendum separatista nell’est del Paese né tanto meno l’annessione della Crimea alla Russia. Per quello che può valere la mai del tutto sopita cremlinologia (la scienza congetturale con la quale per decenni ci si è sforzati di decifrare i segreti e le intenzioni della nomenklatura sovietica), tutto fa pensare che vi siano le premesse per una de-esclation in Ucraina: di qua lo zar all’apice della popolarità, dall’altra parte l’uomo che finirà (forse) con il tirarlo fuori dai pasticci. In ogni rivoluzione che si rispetti, a farne le spese – come la Storia insegna – saranno probabilmente proprio i promotori della rivolta, quelle milizie che per il fuggevole spazio di un mattino si sono illuse di essere protagoniste di un Great Game, i cui veri giocatori sedevano altrove, indifferenti e lontani.
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