giovedì 26 giugno 2014
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​Uno schema di testo legislativo unificato non fa primavera, ma può far capire molte cose. E, a volte, aiuta anche a cogliere la portata dei danni che un legislatore male indirizzato o distratto può infliggere a un corpo sociale. In questo senso – e purtroppo solo in questo senso – appare utile la proposta presentata ieri in Commissione al Senato dalla Repubblica da Monica Cirinnà, esponente del Pd e sinora relatrice per i diversi disegni di legge che puntano a regolare sia le unioni tra persone dello stesso sesso sia quelle tra un uomo e una donna che non vogliano sposarsi. Lo schema Cirinnà aiuta, infatti, a capire che una parte non piccola dei nostri parlamentari sta perseguendo – più o meno consapevolmente – una duplice e rischiosa operazione: l’estensione di diritti e doveri del matrimonio a situazioni (o a “patti” di fatto) che per la condizione o la scelta dei contraenti non sono di natura matrimoniale e, contemporaneamente, una radicale attenuazione proprio dell’istituto matrimoniale (e familiare). Un simile paradossale, discutibilissimo, contraddittorio e, oggettivamente, controproducente sforzo si produce per di più mentre sperimentiamo e cogliamo con la massima chiarezza l’importanza della forza buona e primaria della famiglia. Una forza che – nonostante certe diffuse caricature mediatiche – risalta dalle indagini degli statistici e dei sociologi e che resiste tra crescenti difficoltà e sotto il peso di tenaci indifferenze e ostilità normative. Una forza che si manifesta anche oggi in una naturale capacità di difendere le fragilità emergenti e di attutire i colpi di una crisi che continua a impoverire le persone, a disgregare il tessuto economico e produttivo, a intaccare le reti sociali di sostegno.In una fase nella quale servirebbe più solidarietà e meno confusione, con forzature e iniziative di questo tipo si fa, invece, confusione e si diminuisce la forza del principale “luogo” di duratura solidarietà: la famiglia fondata sul matrimonio e capace di figli che la nostra Costituzione riconosce solennemente all’articolo 29.Perché diciamo questo? Perché, per esempio, stabilire che un’unione tra persone dello stesso sesso è equiparata al matrimonio in tutto e per tutto, tranne che per la possibilità di adottare figli significa introdurre un’esclusione-foglia di fico, che – vista la evidente struttura simil-matrimoniale dell’unione – non reggerebbe a lungo a un offensiva in sede giudiziaria europea o anche italiana. Perché dichiarare solubile in appena tre mesi – e anche per «decisione unilaterale» – un’unione identica al matrimonio significa introdurre un mini-matrimonio e predisporre l’inesorabile svuotamento del matrimonio “tradizionale” con il suo adeguamento a questa condizione minima secondo l’infausto modello già sperimentato in Spagna. Perché, ci fermiamo qui, appare studiatissima nella sua ambiguità la scelta di prevedere (punto 4 dell’articolo 1 dello schema Cirinnà) l’iscrizione nello stato civile della coppia omosessuale non solo di eventuali figli dell’uno o dell’altro partner anche «di eventuali figli minori dell’unione» stessa, cioè di “figli” della relazione di due uomini o di due donne che naturalmente non possono aver procreato senza ricorrere a un utero femminile in affitto e/o all’acquisizione (con modalità indefinite) di quello che ormai viene orribilmente definito “materiale biologico umano” dell’altro sesso.

C’è da preoccuparsi e da tenere gli occhi aperti. E non è solo affare di cattolici e men che meno una questione che opponga “credenti” e “non credenti”. Ancora una volta stiamo infatti discutendo del valore civile del matrimonio e della sua rilevanza sociale, non del suo valore religioso. Chi lavora per dematrimonializzare la nostra società, introducendo, attraverso l’impropria matrimonializzazione di contratti di «unione civile» tra persone dello stesso sesso, di una sorta di tenuissimo “mini-matrimonio” per tutti si assume la responsabilità di una scelta destinata incidere pesantemente sul costume sociale, sulla solidarietà tra le persone e le generazioni e, dunque, sul futuro comune. Altrove si stanno già facendo i conti con gli esiti di una simile deriva. È perciò inevitabile constatare che l’articolato presentato ieri al Senato non può diventare una seria base di discussione. Sui banchi del Parlamento, nella maggioranza di governo e nello stesso Pd, c’è chi se ne rende pienamente conto. Ascoltarli sarà saggio. Riflettere bene su errori che non si possono e non si devono fare è necessario. E chi ha più responsabilità deve avere più voce.

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