mercoledì 24 aprile 2024
Rabia, Giulia, Rosa, Oksana: chi ha deciso di interrompere la propria gravidanza sulla strada, nei consultori o negli ospedali, non ha sempre incontrato alternative
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«Sei rimasta di nuovo incinta? Sei scema?». Il colloquio in un consultorio pubblico piemontese per Rabia comincia così. Perché a 21 anni una seconda gravidanza indesiderata nello spazio di pochi mesi allo psicologo di là dal tavolo, oberato di turni, sembra deficit intellettivo mica mancanza di educazione alla sessualità o risultato di un’esistenza condotta ai margini. Rabia vive con altre due donne africane alla periferia di Torino in un appartamento pagato dal datore di un lavoro non meglio specificato, che di bambini non vuole ovviamente sentir parlare. Lei non se la prende affatto: incassa in pochi minuti l’ok alla Ru486 (essendo dentro al termine delle 9 settimane statuito dalle linee guida del ministro Speranza) e procede col suo iter, evitando per stavolta il raschiamento chirurgico.

Ha una storia complicata questa ragazza con le treccine, arrivata su un barcone a 16 anni con due fratelli sparsi per l’Italia. Ma allo psicologo in questione non interessa, e anche a lei tutto sommato va bene così: una firma, poche complicazioni, essenziale è togliersi il “problema”. Che problema torna ad essere all’assunzione della seconda pillola prevista, però, quando dopo una brutta emorragia Rabia finisce in Pronto soccorso «e nessuno mi chiede perché piango, dicono solo che sta scendendo», ripete al volontario di Federvita che risponde a un numero di telefono ottenuto tramite un passaparola improvvisato tra infermiere. Lo stesso a cui in queste ore sono arrivate le finte telefonate con fasulle richieste d’aiuto delle giornaliste che volevano mettere sotto accusa il “sistema Piemonte”, accusato tra le altre cose di utilizzare i soldi (o, a seconda delle ricostruzioni, di promettere di utilizzarli) per convincere le donne a cambiare idea. L’aborto di Rabia va a buon fine, senza ripensamenti. Qualcuno però, per la prima volta, a Federvita si prende il tempo di ascoltare la sua storia: come stai fisicamente? Come mai sei rimasta incinta la prima volta, e poi la seconda? Dov’è il padre? Domande che potrebbero mettere a repentaglio la sua libertà di donna, secondo la crociata contro gli antiabortisti ripartita dopo l’emendamento di Fdi al decreto Pnrr che prevede l’ingresso di associazioni pro life nei consultori. Se non fosse che Rabia è stata ed è liberissima. Oltre che tremendamente sola.

La solitudine torna sempre nei racconti delle donne che hanno abortito, e che non lasciano cognomi o indirizzi precisi. Poco male, dirà qualcuno, l’essenziale è che non debbano rendere conto a qualche “integralista cattolico” della propria decisione, come se uno stuolo di persone fosse presente giorno e notte nei consultori o negli ospedali a bloccare chi vi accede. Peccato che Giulia, dalle parti di Cesena, abbia dovuto invece rendere conto a un’assistente sociale del dubbio se tenerlo, il suo bambino. Quella di Giulia è una storia da film, l’unica a lieto fine in questo articolo: 24 anni, di famiglia altolocata, scopre d’essere rimasta incinta dello storico fidanzato di Palermo, che non appena viene a saperlo sostiene di dover tornare in Sicilia per motivi di lavoro. «In un mese s’è smaterializzato». A questo punto la famiglia la minaccia: «O abortisci o vai fuori di casa, per noi sarebbe una vergogna troppo grande». Lei decide di trasferirsi da un’amica, «non perché volessi davvero proseguire la gravidanza, ma perché ero piena di dubbi e di incertezze. Sentirmi dire da mia madre che l’avevo tradita, messa alla porta, aver perso quello che pensavo essere l’amore della mia vita: è stato un momento devastante». Giulia vaglia l’ipotesi di andare in una casa protetta, ne ha sentito parlare, opta per un incontro con gli assistenti sociali. E il colloquio ha dell’incredibile, perché le pressioni qui sono al contrario, e cioè perché lei scelga a tutti i costi l’aborto: «Mi chiede del mio lavoro, io studiavo all’università. Mi domanda come penso di poter mantenere un bambino senza stipendio e lontano da casa. “Non sei in grado, è evidente”, mi ripete, e poi “saresti una mamma sola, lo capisci questo?”». Nessuno le prospetta la possibilità di un aiuto economico, nessuno le dice che c’è un altro percorso, un’alternativa per chi come lei vorrebbe optare per la gravidanza: del “popolo dei terroristi pro vita” non c’è traccia sulla strada di Giulia finché la sua amica, che la ospita, le dice che in università ha sentito parlare d’uno sportello in ospedale, «gente che fa questo, che aiuta». Basta un colloquio, «sarà durato venti minuti. Seduta con me in corridoio c’è una volontaria del Cav che per la prima volta in due mesi di gravidanza non mi fa sentire in colpa per desiderare un figlio, non mi dice che ho sbagliato, che sono troppo giovane o che devo rinunciare». E Giulia non rinuncia. Oggi cresce il suo bambino, i genitori l’hanno ripresa in casa subito dopo averla vista per la prima volta col pancione, il padre del piccolo è rimasto a Palermo, «la volontaria non l’ho più rivista. Ma è stata la persona giusta al momento giusto».

E un’ostetrica di un consultorio romagnolo è la persona giusta per Rosa, che alla scelta dell’aborto arriva a 40 anni, quando insieme al marito scopre dall’amniocentesi che il figlio che porta in grembo nascerà con una grave disabilità: prima i dubbi laceranti, la disperazione, poi in consultorio il percorso gelido dei protocolli sanitari, con le tempistiche ridotte il più possibile, la disposizione che il giorno del colloquio venga fatta anche l’ecografia e magari la certificazione, quando la legge prevederebbe un tempo di sette giorni per poterci pensare su. «Quell’ostetrica fu l’unica a dirmi di aspettare qualche giorno, di parlarne ancora con mio marito, che avrei avuto aiuto e supporto con un figlio disabile. Fu l’unica ad ascoltare, a non giudicarmi, cosa che invece fecero anche nella mia comunità». Rosa alla fine abortisce lo stesso, racconta di come quella scelta abbia stravolto la sua vita e quella del marito, del segno che porta per sempre con sé: «Ma questo non lo capirà nessuno mai, se non l’ha vissuto. Quello che voglio dire invece è che quell’ostetrica, per avermi parlato, per avermi detto di pensarci su, fu allontanata dal consultorio. La umiliarono davanti ai miei occhi dicendo che non doveva permettersi». La vicenda è finita per vie legali: l’ostetrica in questione, che è stata poi reintegrata, non vuole svelare la sua identità per paura di avere ancora problemi sul lavoro. Ma mentre Rosa è stata libera di abortire, in fretta e senza ripensamenti, nello stesso consultorio quell’ostetrica non ha avuto il diritto di dirle di pensarci. Ciò che la legge 194, invece, stabilisce con chiarezza che debba avvenire.

Oksana e Flavia, invece, si incontrano a Napoli, dove a febbraio scorso alcune donne hanno raccontato di essersi viste rifiutare il certificato di aborto firmato dal consultorio in ospedale e che nei corridoi dei reparti si aggiravano “persone in camice bianco col rosario in mano”: «Noi sicuro non le abbiamo viste» spiega Oksana, che in Campania è arrivata con un gruppo di profughi da Kiev ormai un anno e mezzo fa per lavorare, lasciando in Ucraina marito e due figli, seguiti dai nonni: «Ho scoperto d’essere incinta quand’ero in Italia, ma un bambino in quel momento era impossibile. Non ho detto a nessuno che lo aspettavo, tanto meno a mio marito. Mi ripetevo che se nessuno lo sapeva era come se non esistesse» racconta. Sicuramente non in consultorio, «dove non hanno mai usato la parola bambino o mamma, anche se io mamma lo sono già, so cosa vuol dire». La richiesta d’aborto viene accettata senza problemi, «motivi personali», nessun colloquio supplementare. Oksana 14 giorni dopo è in fila all’ospedale, aspetta il suo turno tra tante ragazze più giovani di lei e le salta all’occhio Flavia, che ha lo sguardo fisso e l’aria terrorizzata. Le sembra la figlia adolescente lontana che a Kiev diventa grande senza di lei, e le si affianca. Stanno insieme per il percorso e poi, dopo, ad aspettare le dimissioni. Oksana le sorride, si fa forza per darne a Flavia. E anche Flavia ricomincia a prendere colore. «Solo lei sapeva che ero lì, e c’ero solo io per lei. Nessuno ci ha chiesto niente, nessuno capiva cosa ci era appena successo o si è domandato se stessimo soffrendo. Ci siamo fatte compagnia tra noi». Aborti “liberi”, sì, delle donne che importa.

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