Mentre la polizia macedone al confine con la Grecia, lancia gas lacrimogeni e granate stordenti ai rifugiati bloccati da settimane nel campo profughi di Idomeni; dall'altro lato della strada c'è la casa della signora Panagiota Vasileiadou, che accoglie alla sua tavola quegli stessi profughi. Quando entrano in casa, li saluta e li abbraccia come fosse per loro una nonna adottiva.
Panagiota Vasileiadou ha 82 anni e vive in Idomeni, un villaggio con appena 150 abitanti, che è diventato noto perché teatro di una delle più grandi tragedie umanitarie degli ultimi decenni. Dal 9 marzo 2016 quando la rotta balcanica è stata chiusa definitivamente sono rimasti «intrappolati» a Idomeni tra i 10mila e 15mila profughi. La famiglia Baraa formata da rifugiati iracheni è una delle tante che è stata accolta dalla signora Vasileiadou. «Questa vecchia donna ha reso la nostra vita più facile. Io la ringrazio tanto - spiega il padre della famiglia irachena - La sua generosità rappresenta il popolo greco». Ma i Baraa non sono gli unici: in questi ultimi mesi Panagiota ha accolto centinaia di profughi e ha donato loro cibo, vestiti e quel poco che può comprare con una pensione che è l'equivalente di circa 450 dollari al mese. «A volte ho fatto torte di formaggio, uova, panini. Sapevo che sarebbero passate cinque, dieci, quindici persone e gliel'ho date».
Panagiota sa molto bene cosa vuol dire rimanere senza niente: lei è figlia di profughi e ha perso tutto durante la seconda guerra mondiale. «Avevo sette anni quando la nostra casa è stata bruciata. Non avevamo più né un cucchiaio, né una forchetta, né pane né vestiti. L'unica cosa che c'era rimasta era la camicia da notte che indossavamo quella notte quando la casa è stata bruciata».
Sebbene non ci siano lingue in comune tra Panagiota e i profughi che incontra e ospita a casa sua, poiché lei parla solo il greco, la comunicazione funziona ugualmente. I gesti e gli abbracci fanno molto più delle parole: sono il cuore del linguaggio universale della solidarietà, che non conosce confini.