La blastocisti ibrida in un’immagine di Weizhi Ji (Kunming University)
La manipolazione profonda dell’umano è l’altra faccia della medaglia dell’importante sviluppo scientifico e tecnologico che segna i nostri tempi, e la recente creazione degli embrioni chimera uomo-scimmia (cioè embrioni in cui le cellule hanno patrimonio genetico diverso, delle due specie), di cui abbiamo avuto notizia nei giorni scorsi, è solo l’ultimo dei passi in questo percorso a dir poco inquietante. Si tratta di embrioni di macaco prodotti in vitro in cui sono state inserite cellule staminali umane simil-embrionali: i tre embrioni sopravvissuti per 19 giorni hanno mostrato una comunicazione significativa fra cellule animali e umane.
Il tentativo non è nuovo: nove anni fa in Gran Bretagna si cominciò a parlare di modifica legislativa per poter creare embrioni mix umano-animali. Si accese un fortissimo dibattito internazionale che durò anni: si trattava di embrioni ibridi, cioè in cui tutte le cellule hanno lo stesso Dna, ciascuno misto umano-animale. Non chimere, quindi. Formati con la stessa tecnica con cui era stata clonata la pecora Dolly, avrebbero avuto il Dna nucleare umano e quello mitocondriale bovino: minimo il contributo dei geni di origine animale, circa lo 0,1% del patrimonio genetico, ma decisivo per il funzionamento dell’intero organismo (molte malattie degenerative incurabili derivano da difetti del Dna mitocondriale). Il premier Tony Blair all’epoca sostenne queste ricerche e la legge cambiò, consentendo la creazione di «human admixed embryos». Gli scienziati coinvolti intrapresero un vero e proprio battage pubblicitario internazionale, inclusi viaggi “promozionali”, uno dei quali ha toccato anche le istituzioni italiane: nell’ottobre del 2007 Stephen Minger insieme a una rappresentante dell’Hfea (l’authority britannica sull’embriologia umana) furono accolti in pompa magna in due convegni, uno alla Sapienza di Roma e l’altro in Parlamento, celebrati da tanti scienziati nostrani.
Ma tutto finì presto: respinti inizialmente dal Medical Research Council e dal Biological Sciences Research Council, i progetti di ricerca sugli embrioni ibridi non hanno trovato finanziatori perché non c’erano i presupposti scientifici di fattibilità. La notizia, trapelata nella stampa inglese con scarso risalto fin dall’inizio del 2009, è stata rilanciata in Italia solamente da chi scrive sulle colonne di Avvenire, nell’imbarazzato silenzio generale, e subito “dimenticata”, a partire da quelli che fino a quel momento erano stati i più accesi sostenitori.
Ma il catalogo degli esperimenti estremi, da questo punto di vista, è piuttosto lungo e viene da lontano, reso possibile soprattutto dalla grande disponibilità di embrioni umani in laboratorio. Nelle ultime settimane abbiamo letto degli embrioni di topo cresciuti in utero artificiale: ricercatori del Weizmann Institute of Science, in Israele, hanno prevelato da un topo femmina embrioni dopo 5 giorni dalla fecondazione e li hanno fatti crescere per altri 6 giorni in un incubatore specifico, dotato di una ventilazione particolare, un sistema da loro stessi ideato. L’11° giorno di sviluppo corrisponde per i topi a circa metà gravidanza: quelli trattati nell’incubatore apposito non mostravano differenze con i cresciuti nelle gravidanze naturali. L’esperimento si è interrotto perché allo stadio di sviluppo raggiunto erano troppo grandi per il sistema, e avrebbero avuto bisogno di apporto di sangue dalla placenta per continuare a crescere. A oggi gli embrioni murini coltivati in questo modo sono un migliaio. Secondo la Mit Technology Review, il biologo Jacob Hanna, che guida il gruppo di ricerca, vorrebbe far sviluppare così anche l’embrione umano: «Raccomanderei di coltivarlo fino al giorno 40 e poi di smaltirlo. Invece di ottenere tessuti dagli aborti, prendiamo una blastocisti e coltiviamola».
Intanto da mesi va avanti il dibattito nella comunità scientifica sulla possibilità di continuare a fare ricerca sugli embrioni umani oltre il limite dei 14 giorni, stabilito nel 1984 dal «Rapporto Warnock», il report della Commissione britannica guidata dalla baronessa Mary Warnock istituita per riflettere sulle problematiche etiche della fecondazione in vitro e della ricerca connessa. Si tratta di un limite acquisito dalla legge inglese e finora condiviso dalla comunità scientifica internazionale, che ne ha sempre riconosciuto il carattere puramente convenzionale e non basato su particolari motivazioni scientifiche: un limite facile da rispettare perché finora gli embrioni umani non riuscivano a sopravvivere così a lungo. Un patto sociale, più che altro, perché la ricerca sugli embrioni umani all’epoca suscitava ancora obiezioni, e necessitava di qualche limite per essere accettata.
Ma adesso le polemiche sembrano sopite. Questi esperimenti di manipolazione estrema non fanno neppure notizia, scivolano via nell’indifferenza dei più, non diventano oggetto di dibattito e confronto pubblico, nonostante non manchino i dubbi: ad esempio Giuseppe Novelli, genetista a Tor Vergata, ha detto che «la creazione di embrioni chimera uomo-scimmia porta a pochi vantaggi e a numerosi interrogativi, aprendo la strada a compromessi che si presentano, al momento, inaccettabili da molti punti di vista». E non è il solo. Ma le domande sui confini dell’umano che emergono sempre più nettamente dagli sviluppi scientifici e tecnologici non sembrano trovare interlocutori.