La sede della Corte europea dei diritti dell'uomo (Cedu) a Strasburgo
Negare il suicidio assistito a un paziente che lo chieda in uno Stato dove la pratica è vietata dalla legge non è contrario alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Non esiste, in altre parole, un fondamento giuridico alla richiesta di avere il “diritto di morire”. Lo stabilisce una importante sentenza della Cedu (Corte europea dei diritti umani, organismo giuridico espressione dei 46 Stati del Consiglio d’Europa, tra i quali tutti i 27 dell’Unione Europea) sul caso di Daniel Karsai, cittadino ungherese malato di Sla che ha rivendicato il «diritto all’autodeterminazione della morte».
Il malato ungherese soffre di Sclerosi laterale amiotrofica in fase già avanzata e – come si legge nella sintesi diffusa dalla Corte, che ha sede a Strasburgo – «vorrebbe poter decidere quando e come morire prima che la sua malattia raggiunga uno stadio che egli trovi intollerabile». Per morire avrebbe bisogno dell’assistenza di qualcuno che però incorrerebbe nella sanzione prevista dalla legge ungherese «anche se – precisa la nota della Cedu – morisse in un Paese dove il suicidio medicalmente assistito fosse permesso». Una situazione che ricorda assai da vicino un caso come quello di Fabiano Antoniani, accompagnato in Svizzera per darsi la morte assistita in una struttura specializzata dal leader radicale Marco Cappato che poi fu assolto per l’aiuto al suicidio dopo la sentenza 242 del 2019 con la quale la Corte costituzionale sancì la non punibilità della pratica a ben precise e vincolanti condizioni. Tra esse, anche la dipendenza da supporti vitali per la nutrizione assistita, un punto sul quale la Consulta è stata chiamata a pronunciarsi dal tribunale di Firenze. Nel dossier dell’udienza pubblica dei giudici costituzionali, in calendario il 19 giugno, è ragionevole supporre che entri anche questo verdetto della Corte di Strasburgo, la cui giurisprudenza è attentamente seguita dalla nostra Corte costituzionale, che nella sentenza sul caso Cappato-Fabo ne ha citato più volte i pronunciamenti in materia.
Di particolare interesse proprio a questo proposito gli argomenti usati dai giudici della Cedu nel verdetto sul caso ungherese: il paziente infatti «lamentava di non poter porre fine alla sua vita con l’aiuto di altri» ritenendo per questo «di essere discriminato rispetto ai malati terminali in trattamento di sostegno vitale che possono chiedere che le loro cure vengano interrotte». Davanti a questa tesi «la Corte ha osservato che l’offerta di trattamenti medici ha potenzialmente ampie implicazioni sociali e rischi di errore e abuso nella pratica della morte assistita da parte del medico». Prevale dunque l’argomento che anche la Corte costituzionale italiana ha utilizzato per fondare l’inesistenza di un “diritto di morire”, cioè il dovere prioritario di tutelare la persone più fragili. «Nonostante una tendenza crescente verso la legalizzazione – osserva poi la Corte europea – la maggioranza degli Stati membri del Consiglio d’Europa continua a proibire sia il suicidio medicalmente assistito che l’eutanasia. Lo Stato ha quindi un ampio margine di discrezionalità in questo senso e la Corte ha ritenuto che le autorità non avessero mancato di trovare un giusto equilibrio tra gli interessi in gioco».
I giudici di Strasburgo tengono dunque a ribadire uno dei principi portanti della loro azione: il rispetto dell’autonomia dei singoli Stati (la «discrezionalità») nel legiferare sui diritti fondamentali delle persone, quelli normati in particolare dagli articoli 8 e 14 della Convenzione europea (rispettivamente diritto al rispetto della vita privata e familiare e divieto di discriminazione) notando che «la Convenzione va interpretata e applicata alla luce del tempo presente. La necessità di misure legali appropriate dovrebbe essere tenuta sotto osservazione, tenendo in considerazione gli sviluppi nelle società europee e negli standard internazionali dell’etica medica in questo ambito».
Alla luce di tutte queste considerazioni, negare il diritto di accedere al suicidio assistito anche se il proprio Paese lo vieta vuol dire lasciare inascoltata la sofferenza del malato ungherese di Sla? La Corte qui introduce un altro principio fondamentale che si rinviene anche nella giurisprudenza costituzionale italiana, ritenendo che «cure palliative di alta qualità, compreso l’accesso a un’efficace gestione del dolore, siano essenziali per garantire un fine vita dignitoso. Secondo le testimonianze degli esperti auditi dalla Corte – spiega ancora la Cedu – le opzioni disponibili per le cure palliative, guidate dalle raccomandazioni riviste dell’Associazione europea di Cure palliative, compreso l’uso della sedazione palliativa, sono in generale capaci di dare sollievo ai pazienti che si trovano nella situazione del ricorrente e di consentire loro di morire serenamente». Tanto più che «il signor Karsai non ha sostenuto che tali cure non sarebbero state disponibili per lui».
E la «presunta discriminazione»? La Corte europea «ha rilevato che il rifiuto o la sospensione delle cure in situazioni di fine vita sono intrinsecamente legati al diritto al consenso libero e informato piuttosto che al diritto di essere aiutati a morire», oltre a essere «ampiamente riconosciuti e approvati dalla professione medica e anche nella Convenzione di Oviedo del Consiglio d’Europa». Dunque, resta intatto il diritto del paziente debitamente informato di sospendere cure e trattamenti: «Il rifiuto o la revoca del supporto vitale – fa notare il tribunale di Strasburgo – è consentito dalla maggioranza degli Stati membri». Quindi «la Corte ha ritenuto che la presunta differenza di trattamento delle due categorie fosse oggettivamente e ragionevolmente giustificata».
La sentenza della Cedu pone più di un punto fermo per la tutela della vita umana come principio fondamentale degli ordinamenti e dei servizi sanitari di tutta Europa. Parole che entrano direttamente nel dibattito italiano attorno sia a una nuova legge sul fine vita, oltre a quelle sulle cure palliative (38/2010) e sulle Dat (219/2017), sia all’ipotizzato ampliamento dei precisi criteri dettati meno di 5 anni fa per circoscrivere l’area di non punibilità dell’aiuto al suicidio indicandoli al legislatore come limite invalicabile. Un punto fermo da Strasburgo che parla a tutta Europa ed entra nel confronto in corso da anni del nostro Paese sulle scelte e diritti nel fine vita.