Ansa
Intorno alle vaccinazioni da tempo è in discussione il problema della obbligatorietà, un tema sul quale vale la pena riflettere anche quando emergono problemi sull’uso di uno specifico vaccino.
Chi ha un lungo chilometraggio ricorda il problema delle vaccinazioni al tempo del vaccino contro la poliomielite quando, per paura di vaccinare, abbiamo condannato migliaia di bambini a morire o a essere disabili per tutta la vita. Tutti invece ricordano le recenti discussioni, le prese di posizione dei partiti politici, la legislazione – per la verità, in parte ambigua – riguardante le vaccinazioni della prima età. In realtà non si dovrebbe ricorrere a delle leggi se la nostra società attraverso la scuola educasse al senso civico, cioè a rispettare i diritti degli altri, una forma riduttiva rispetto al monito ebraico-cristiano «amerai il prossimo tuo come te stesso». I vaccini si rivolgono alle malattie infettive, cioè a quelle malattie determinate da virus, batteri, parassiti che si diffondono in generale dagli animali all’uomo determinando non solo malattie e spesso morte in chi viene infettato ma la possibilità da parte dell’infettato di infettare altre persone. Le vie della diffusione sono diverse: attraverso le vie respiratorie, come nel caso del Sars-Cov-2, attraverso la via orale, nel caso delle epatiti, o le vie sessuali nel caso dell’Hiv.
Le malattie infettive si possono curare, ma i virus e i batteri si difendono e quindi, come sta accadendo nel caso degli antibiotici, possono indurre una resistenza e continuare a infettare. I vaccini sono degli straordinari farmaci perché non curano ma proteggono, sviluppando risposte immunitarie che impediscono la riproduzione del virus o del batterio. Il grande vantaggio è che l’immunità rimane nel tempo nel caso che si ripresenti quel determinato virus o batterio. Se tutta una comunità si vaccina si ottiene quella che con un brutto termine si chiama immunità di gregge, che impedisce al virus di abitare in quella comunità e quindi di nuocere. Da qui nasce un obbligo che non dovrebbe essere legislativo ma effettuato per ragioni morali ed etiche. Infatti se non mi vaccino non contribuisco a eliminare il virus dalla circolazione.
Qualcuno risponde: 'ma io ho il diritto di rifiutare un vaccino perché sono io il responsabile della mia salute'. È certamente vero, ma in questo caso solo se si ritira da eremita e non entra in contatto con nessuno, perché se non è vaccinato e si infetta può infettare altri che a loro volta possono infettarne altri ancora. Se il non vaccinato non fa l’eremita può infettare chi non si è vaccinato non per capriccio ma per ragioni mediche: è chi – circa il 5% – anche volendolo non può vaccinarsi perché sarebbe inutile. C’è anche una piccola percentuale di chi pur essendosi vaccinato non ha sviluppato immunità sufficiente per essere protetto, e infine c’è chi essendosi vaccinato con successo contrae malattie o deve essere trattato con farmaci che diminuiscono o annullano le sue risposte immunitarie. Infine, se ne infetto uno posso creare una catena di infezioni e questo svantaggia non solo la salute degli interessati ma anche il Servizio sanitario nazionale che deve intervenire per trattamenti che potrebbero essere evitati.
Ecco da dove nasce il dovere morale ed etico per vaccinarsi, ancora più importante se chi non si vaccina ha attività che lo espongono al pubblico, in primis agli ammalati. In altre parole, la mia libertà d’azione termina quando lede la libertà degli altri. È giusto quindi impedire attività di lavoro a chi non si vaccina pur avendo rapporto con il pubblico o con persone fragili come gli ammalati.
Analogamente si pone un altro problema di natura etica che riguarda chi ha partecipato ai grandi studi clinici controllati che hanno permesso di verificare l’efficacia e la tollerabilità di alcuni vaccini. Questi vaccini sono stati ulteriormente verificati sul campo in Paesi come Israele e Regno Unito, dove una estesa vaccinazione ha permesso di diminuire la contagiosità, i ricoveri ospedalieri e la mortalità. Molti dei partecipanti hanno ricevuto un placebo e quindi non sono stati protetti. È giusto che continuino a partecipare allo studio per avere seppure utili informazioni sulla protezione e gli effetti collaterali in tempi più lunghi? L’etica dice di no perché la partecipazione era giustificata quando non si sapeva se il vaccino fosse attivo, ma oggi lo sappiamo. Sarebbe perciò necessario richiedere ai trattati con placebo, attraverso un consenso informato, se vogliono continuare o se preferiscono farsi vaccinare. Ancora, nei prossimi studi è etico usare il placebo o l’etica richiede che si utilizzi come controllo un vaccino già approvato? Sono tutte domande che devono avere risposte compatibili con l’etica. Beati i Paesi in cui i problemi vengono risolti da un’etica di gregge senza che sia necessaria una legislazione!
Presidente Istituto di Ricerche farmacologiche Mario Negri Irccs