Sami Modiano riceve la laurea honoris causa dalle autorità accademiche del Campus Biomedico di Roma - Ansa
«Questo è un posto dove c’è speranza, qui fate di tutto per aiutare il prossimo. Anche a Birkenau c’erano medici, anche là si studiava. Ma per motivi diversi...». La voce di Sami Modiano si spezza: troppo dolore preme mentre ringrazia l’Università Campus Biomedico di Roma per averlo riconosciuto dottore honoris causa in Medicina. La cerimonia, di cui ha riferito Alessia Guerrieri su “Avvenire” nei giorni scorsi, è stata toccante non solo per la statura morale e la forte emozione del 93enne sopravvissuto alla Shoah: Modiano porta la sua voce forte ed esplicita in tanti luoghi di studio dei giovani, ormai da tempo ha deciso di «rompere il mio silenzio» per «testimoniare», «non dimenticare » e contribuire a far sì che «quel che ho visto non accada mai più». Ma stavolta, davanti agli studenti di Medicina, è diverso. Perché il riconoscimento accademico vede in Modiano un «medico» che applica a una società smemorata la terapia difficile ma indispensabile della verità, conosciuta e raccontata senza sconti. Come deve fare ogni buon dottore. Le sue sono parole “che curano”, come fa la medicina narrativa. Ma c’è anche la denuncia di una medicina asservita a una spietata ideologia funzionalista, alimentata dal fanatismo antisemita, che portò a concepire l’esistenza di esseri umani “meno degni” di altri perché “diversi” rispetto agli standard stabiliti dal potere, e perciò sacrificabili. Acqua passata? Le lacrime di Modiano ci dicono di stare attenti perché l’incubo rischia di tornare, debitamente dissimulato.