giovedì 6 aprile 2023
Parte dall'Istituto dei tumori di Milano il nostro viaggio nei luoghi dove sono praticate le cure palliative come risposta alla sofferenza: una via "censurata" mentre si propone il suicidio assistito
L'équipe dell'hospice all'Istituto nazionale dei tumori di Milano. A sinistra, Augusto Caraceni

L'équipe dell'hospice all'Istituto nazionale dei tumori di Milano. A sinistra, Augusto Caraceni - .

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«In stanza 1 abbiamo Carla, 50 anni, adenocarcinoma polmonare con metastasi. Canalizzata. Condizioni generali scadute. Il dolore è sotto controllo, per adesso. Si mostra dispiaciuta per il disagio che causa ai suoi familiari e non vuole far venire qui dentro i figli.

Se è un veto bisogna cercare di rimuoverlo, con garbo...». Le camere sono 10, tutte occupate. E dieci sono gli specialisti al tavolo dell’hospice. Alla riunione del martedì si ritrovano il primario, il medico, lo psicologo, l’infermiera, il cappellano, l’assistente sociale, la fisioterapista, il volontario, gli specializzandi. Sfogliano le storie degli ospiti. Strazianti e passeggere, nel silenzio del “Virgilio Floriani” che completa l’offerta sanitaria dell’Istituto nazionale dei Tumori di Milano. Perché anche al cancro ci si arrende, a un certo punto. «L’hospice è considerato l’anticamera della morte, ma è un significato fuori misura – dice Augusto Caraceni – in quanto si tratta di una struttura necessaria per le persone che affrontano un percorso terminale. Tuttavia è la loro situazione che lo rende necessario: non è l’hospice che rende terminali le persone». Il “prof” insegna all’Università di Milano ed è il primario che dirige la Scuola di specializzazione in Medicina e cure palliative dell’ateneo. Non promette a nessuno la guarigione. I cosiddetti ricoveri di sollievo li rimanda a casa per l’ultimo tratto del percorso, sempre accompagnati dalla morfina. In media, quaranta sui duecento che transitano ogni anno dal secondo piano dell’istituto.

«Nella stanza 2 abbiamo Lucia, adenocarcinoma del pancreas. Ha 77 anni. Addome da manuale. Varie trombosi. La prognosi è breve. Il marito è un problema perché non se ne rende conto. Sarebbe utile che don Luciano ci parlasse...».

Don Luciano Massari è un cremonese di Pizzighettone. Col suo sorriso sornione, il cappellano dell’hospice amministra i sacramenti a chi li vuole e ascolta tutti gli altri. È qui da otto anni. Si confronta con l’angoscia e non indora la pillola. Fuori dall’hospice, nel grande ospedale che studia e cura il cancro, lavora il suo “collega” don Tullio Prosperpio, cappellano dell’Istituto di via Venezian. È lui ad affrontare il tema più spinoso: «Quando un malato giunge anche a chiedere di riflettere sull’eutanasia non mi scandalizzo: io sono qui per accompagnarlo nell’ultimo momento di vita, stringendogli le mani, se lo desidera, perché non si senta solo». Don Tullio stringe la morte nelle mani da vent’anni. Non sa neanche quanti ne ha visti morire. Vive al nono piano dell’Istituto; quattro muri tenuti su dai libri, pare la cella di un monastero. «Accompagnare “bene” una persona alla morte significa provare a essere un “buon” prete – racconta –, in grado di creare collaborazione senza imporre nulla. Chi muore ha diritto al rispetto, anche quello di essere difeso dalla paura, che appartiene a ogni essere umano». Ha firmato con i ricercatori diversi studi scientifici sul valore terapeutico dell’accompagnamento spirituale.

«In camera 6 c’è Adele, 50 anni, carcinoma del polmone. Metastasi ossee. La sorella è ricoverata nell’Istituto, anche lei con un tumore. Quand’è arrivata ha passato due giorni a piangere, poi ha rimosso. Ieri mi ha detto di essere pronta per la chemioterapia: inutile riportarla alla realtà. Se si allontana naturalmente è un bene... ».

E invece la vita insiste, a dispetto di chi la definisce inutile o disumana, per via di quel dolore che deforma i volti e i corpi, li gonfia, li svuota, li scolora. Spesso, lo si placa anche cooperando alla soluzione di problemi familiari (e magari economici) dei pazienti. «Il dolore si lenisce in modo farmacologico – spiega “il prof” –, ma, come insegnava Cicely Saunders, la fondatrice delle cure palliative, quello della fase terminale non è solo un dolore fisico: quando il malato parla di ciò che lo fa soffrire parla anche della sua ma-lattia e delle conseguenze che ha sulla sua vita, nei rapporti con i familiari... Questo dolore totale si cura mettendo il paziente nella condizione di essere ascoltato e capito per come è, dandogli la sensazione che si è accanto a lui e che gli si garantisce il controllo del sintomo». La consapevolezza che la nausea e la fatica di sopravvivere siano nelle mani certe e sicure di specialisti non è un mero conforto: crea l’alleanza medico-paziente. «Noi ci avviciniamo alla sofferenza con una partecipazione attiva che è compassione, ma non pietà: è un sentimento che integra la nostra professionalità, la rende più ricca e piena» dice Caraceni. Il quale descrive così la sedazione profonda che conclude l’iter terapeutico, e che secondo alcuni sarebbe solo la moderna “misericordia”, il pugnale del colpo di grazia: «Stando ai dati scientifici la morfina non conduce più rapidamente alla morte. Si usa in pazienti che sono vicini alla fine e hanno disturbi che non rendono possibile morire in pace. Un cosa è andare progressivamente in coma e un altro con una insufficienza respiratoria in condizioni di lucidità. Non è sopportabile, no?». È vietato l’accanimento terapeutico, e se esiste una dichiarazione anticipata di trattamento viene rispettata.

«Nella stanza 10 abbiamo Domenica, ha un adenocarcinoma al pancreas. Astenica. Calma e consapevole, ma si capisce che prova una pena infinita per i figli, che hanno appena finito di studiare e non hanno più nessuno... Possiamo fare qualcosa per lei?».

Tutti guardano il medico spaesati: lo sa che non si può far più nulla. Ma anche il medico è madre di due figli.

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