Giovanni Allevi sul palco del teatro Ariston a Sanremo - Ansa
Il discorso del musicista Giovanni Allevi, che dal palco del teatro Ariston di Sanremo ha condiviso emozioni e paure vissute negli ultimi due anni affrontando una malattia temibile come il mieloma multiplo, resterà tra le sequenze indimenticabili del Festival 2024. Lo confermano sia i pazienti che, come lui, affrontano quotidianamente la lotta contro questa patologia, sia chi sta al loro fianco con compiti di cura e assistenza. Lo ha sottolineato anche l’Associazione italiana contro leucemie, linfomi e mieloma (Ail): «Le parole di Allevi sono arrivate dritte al cuore di tutti, soprattutto di coloro che stanno affrontando un percorso di cura, creando un senso di condivisione profonda e sincera».
«Aver reso pubblica la sua malattia è importante per tutta la comunità dei pazienti, perché purtroppo viene ancora vissuta come qualcosa da tenere nascosto». Fabio Bragoni ha avuto la diagnosi di mieloma nel 2013, e ha quindi una lunga esperienza di lotta contro la malattia. «Purtroppo non è ancora possibile guarire, ma la malattia – aggiunge – può essere resa cronica dai trattamenti, che sono molto migliorati negli ultimi anni». «L’emozione è stata importante - ammette Bragoni -, ognuno di noi pazienti, riconoscendosi nel suo racconto, ha rivissuto la propria storia: ho avuto conferma anche da altri “colleghi”». E pur apprezzando il progresso delle cure, non dimentica gli aspetti più duri della cura: «Quando ho avuto la diagnosi, ho letto su Internet che la mortalità era del 50% a tre-cinque anni. Ma fortunatamente l’evoluzione delle terapie in campo ematologico è avanzata velocemente e io sono in cura in un presidio di eccellenza, il Centro Oncologico Ematologico Subalpino di Torino».
Tuttavia il senso di condivisione è importante: «Infatti uno degli aspetti più gravosi è il senso di solitudine che si vive. Ognuno ha il suo percorso di cura, io non ho mai avuto lunghi ricoveri come Allevi, ma comune è il fatto che le terapie sono ininterrotte: tuttora faccio un trattamento una volta al mese. Anche la neuropatia è un’esperienza comune, effetto collaterale delle cure». E anche in un iter “positivo” non mancano gli intoppi: «Il primo momento duro è senz’altro la prima diagnosi. È vero, come ha riferito Allevi, che ti crolla tutto addosso. Ma il secondo, altrettanto pesante, è quello della prima recidiva, che è una certezza di questa malattia. Infatti quando ci si è abituati a non avere sintomatologie gravi, alla prima recidiva di nuovo il mondo ti crolla addosso. Io ne ho avuta una ogni tre anni» confida Bragoni.
Ecco quindi che ancorarsi ai valori è parte di una lotta di lunga durata. «Se la solitudine è il peso più grosso da portare, viene alleviato soprattutto dall’empatia che si trova negli altri malati come noi. In più ho ricevuto grande supporto dagli affetti familiari, moglie e tre figli». E se la vita dopo la diagnosi inevitabilmente cambia, è possibile anche vederla con occhi diversi: «Quando ho avuto la diagnosi, sono andato in pensione anticipata – racconta Bragoni – . Svolgevo un lavoro interessante, con aspetti di ricerca, ma impegnativo per orari e trasferte, che era incompatibile con le cure della malattia. Chiudere questo capitolo e concentrarsi su altri valori è stato una svolta importante: è cambiato il mondo, e ho riscoperto una maggior presenza in famiglia».
Dell’evoluzione delle cure è testimone e protagonista Maria Teresa Petrucci, medico ematologo al Policlinico universitario Umberto I di Roma: «Nei tumori del sangue, in generale, i progressi sono stati tantissimi negli ultimi vent’anni. Purtroppo il mieloma non è una patologia per la quale ancora parliamo di guarigione, però si controlla molto bene». I circa 5mila nuovi casi ogni anno in Italia, fanno del mieloma la seconda patologia neoplastica ematologica dopo i linfomi per incidenza, riferisce Petrucci: «Adesso si tende a cronicizzare e la prevalenza aumenta. Paragonate alle neoplasie solide, quelle ematologiche hanno numeri inferiori, però il mieloma non è una malattia rara, purtroppo. L’età mediana è 70 anni, però si vedono sempre più casi anche prima dei 50 anni».
Quanto al miglioramento delle terapie «siamo partiti vent’anni fa con gli immunomodulanti (talidomide), poi sono arrivati i farmaci di seconda e terza generazione (lenalidomide, polamidomide) e in parallelo gli inibitori del proteosoma (un’altra famiglia di farmaci). Da ultimo gli anticorpi monoclonali, adesso – osserva Petrucci – si parla di Car-T. Fino a vent’anni fa ci limitavamo alla chemioterapia e quando avevamo esaurito due linee di terapia non avevamo alternative». Ma se si sono ampliate le armi terapeutiche, non mancano le spine: «Le lesioni ossee sono caratteristica della malattia, legate al fatto che nel midollo osseo le cellule patologiche proliferano e distruggono l’osso. Quindi le fratture (di cui ha parlato Allevi) interessano l’80% dei pazienti e dipendono dall’osteoporosi accentuatissima, che spesso richiede supporti ortopedici».
Viceversa le neuropatie «sono un effetto collaterale dei farmaci che utilizziamo adesso. Non sono chemioterapici – puntualizza Petrucci – ma anche i farmaci biologici non sono scevri da effetti collaterali, che impattano negativamente sulla qualità di vita di questi pazienti». La rete dell’ematologia in Italia funziona: «C’è molta collaborazione tra noi – riferisce Petrucci – e c’è l’abitudine di indirizzare ai centri specialistici i malati. In più cerchiamo di fare incontri con i pazienti, al di fuori delle visite, per poter rispondere a tutte le loro domande, perché un paziente ben informato ci crede e lotta di più, che è quello che serve».
Tutto ciò consente di guardare al futuro con un prudente ottimismo: «Dati i miglioramenti degli ultimi vent’anni, bisogna essere fiduciosi nelle possibilità della ricerca di disegnare le cure sempre più a misura del singolo paziente, associando le famiglie di farmaci in modo diverso». Un grande apporto alla ricerca e ai pazienti viene da Ail, ricorda Petrucci: «Svolge un ruolo fondamentale per il sostegno ai pazienti, per garantire loro una migliore qualità di vita, per esempio con l’assistenza domiciliare che eviti loro spostamenti non necessari, specie in caso di presenza di lesini ossee. Nè si può dimenticare il sostegno a medici e infermieri con borse di studio».
E Ail, nel ringraziare Allevi per la sua testimonianza, ha ricordato l’impegno da 55 anni «al fianco dei pazienti con tumori del sangue, accompagnandoli in ogni fase della malattia» e ha ribadito il proposito «di migliorare la qualità di vita dei malati e di sensibilizzare l’opinione pubblica alla lotta contro le malattie del sangue».