L a lettura della recente Relazione annuale al Parlamento sull’attuazione della legge 194 ha messo in luce un nuovo calo delle interruzioni di gravidanza nel nostro Paese: 63.653 nel 2021, il 4,2% in meno in un anno, al minimo storico. Sempre tanti, troppi, ma comunque sempre meno. Nello stesso periodo quattro altri Paesi europei hanno presentato il loro bilancio abortivo, ma in nessuno la tendenza rispecchia quella italiana. Anzi. In Francia si sono registrati 234.300 aborti, contro i 218.400 di un anno prima. La Spagna ha fatto segnare 98.136 interruzioni volontarie, con un aumento del 9%. Il Portogallo ha toccato quota 15.870, e qui la crescita è addirittura del 15%. Ma il primato spetta all’Inghilterra che ha totalizzato 123.219 interruzioni di gravidanza che significa 17.731 aborti in più e un aumento del 16,8%. Stiamo parlando di Paesi dove la pillola abortiva ha ormai sopravanzato come metodo abortivo la chirurgia (in Italia siamo arrivati al pareggio, ma il sorpasso è dietro l’angolo) e le varie “pillole del giorno dopo” sono farmaci disponibili per tutte le donne, di ogni età, come da noi. E allora, come si spiega l’andamento opposto? In attesa di analisi accurate, forse non valutiamo a sufficienza quella “eccezione italiana” che, malgrado ogni pressione in senso contrario, continua a considerare l’aborto l’extrema ratio là dove per altre culture è routine, se non diritto: un contraccettivo come un altro, con una banalizzazione di una soluzione che è sempre e comunque drammatica, una ferita che accompagna le donne per tutta la vita. Non dipende però dalle pillole, ma da una “cultura della vita” persistente e tenace assai più di quel che può sembrare, e che probabilmente qui è ancora terreno comune assai più che altrove.
Cresce ovunque il ricorso alle pillole abortive, le pillole del giorno dopo sono a libera disposizione di tutte le donne dappertutto. Ma la curva delle interruzioni ha un andamento opposto. Perché?
© Riproduzione riservata