Il "Giardino degli Angeli" al Cimitero Laurentino di Roma, destinato alla sepoltura dei feti abortiti - Siciliani
Non si tratta di un semplice “regolamento”, ma di una normativa che sottende una visione antropologica, la quale a sua volta impone la domanda: chi siamo? Il processo in atto nella nostra società sembra sempre più orientato all’adozione di etichette alfanumeriche sugli individui, come spesso accade negli ospedali, diventati “aziende”, e ora di nuovo dichiarato nel documento del Comune di Roma (3 novembre 2022) concernente la possibilità di seppellire i feti abortiti, con una serie di distinguo, di cui è difficile comprendere il senso. Tale processo, che ci appare inarrestabile, non può tuttavia incrociare la rassegnazione di chi crede e pensa l’uomo in maniera alternativa rispetto alla cultura dominante (e alla pretesa del pensiero unico). Interessante l’incipit della notizia, così come riferita dal sito del Comune: « L’Assemblea Capitolina ha approvato, nella seduta odierna, la proposta presentata dall’assessora all’Agricoltura, Ambiente e Ciclo dei rifiuti di Roma Capitale Sabrina Alfonsi di modifica del Regolamento di Polizia Cimiteriale del 30 ottobre 1979 in materia di inumazioni di feti, nati morti e prodotti abortivi» (Avvenire se n'è occupato in questo articolo). La prospettiva del testo è chiaramente quella del “diritto delle donne”, laddove sarebbe di un certo, a nostro avviso, importante interesse riflettere anche sui diversi diritti che entrano in campo nella drammatica situazione dell’aborto (donna, uomo, concepito, comunità...). «Uomini o caporali?», si chiedeva il principe de Curtis, in arte Totò, mentre noi oggi ci chiediamo: siamo numeri o persone, che in quanto tali hanno diritto a un nome proprio? Decisamente indigesta per il credente la distinzione fra «prodotti abortivi» e «feti », con buona pace della teoria tomista dell’animazione, almeno allorché, seguendo Aristotele, indica intorno al quarantesimo giorno dal concepimento l’infusione dell’anima “intellettiva” nell’embrione (cfr. Summa Theologiae, III, 33, ob. 3). Sappiamo tuttavia anche che la dimensione intellettiva o, se si vuole, razionale della persona non è l’unica a determinarne l’essenza “umana”, altrimenti dovremmo escludere dai diritti umani le persone che presentano gravi lesioni a livello cerebrale. D’altra parte, proprio queste prese di posizione, così articolate e che rispecchiano la cultura diffusa, ci stimolano a riflettere sulla nostra identità e peculiarità rispetto al cosmo e, per chi crede, a Dio. Il dispositivo non esclude la possibilità di nominare il feto da destinare alla sepoltura o alla cremazione, affidando tale compito alla madre, di cui si garantisce l’anonimato, come se la fecondazione non dovesse attribuirsi anche alla figura maschile o paterna. In ogni caso attribuire il nome di “figure angeliche” ai bimbi mai nati anche eventualmente da parte di chi potrebbe prendersene cura al di fuori dall’ambito genitoriale potrebbe aiutare a non ricadere nella logica dei regimi che indicano gli individui con dei numeri, mentre li inviano ad Auschwitz o al gulag. E come dimenticare la prassi rivoluzionaria che interpellava le persone con l’epiteto di «cittadini», livellandone l’identità e perpetrando al tempo stesso il terrore? Una modalità discutibile di livellare le persone in nome di un egualitarismo disumano. Nella prospettiva del legislatore ci sarebbero feti che hanno la possibilità di essere “chiamati per nome” e altri che dovranno rassegnarsi alla etichetta alfanumerica. Possiamo e dobbiamo a questo punto discutere sul diritto a essere denominato da parte di ogni individuo e sulla disuguaglianza che questa prassi potrebbe instaurare. E non si tratta del “milite ignoto” di cui non è possibile risalire all’identità, ma della scelta di non chiamare per nome il concepito, consegnandolo all’anonimato del numero. Mentre non possiamo negare che quella del Comune capitolino è una ordinanza che consente di compiere un passo avanti rispetto alla tutela della privacy della donna che ha vissuto un’esperienza tragica, vogliamo solo cogliere l’occasione per riflettere sull’uomo e il suo destino non solo alla luce della rivelazione ebraico-cristiana, ma anche illuminati dalla ragione filosofica, che nel Novecento, soprattutto attraverso la lezione dei grandi pensatori d’ispirazione ebraica (cito solo Franz Rosenzweig ed Emmanuel Levinas) ci ha insegnato a pensare il volto e il nome come cifre distintive dell’umano. Da parte nostra aggiungiamo che non avremmo nulla contro i numeri e la numerologia, qualora riuscissimo a interpretarli in un orizzonte simbolico, quale quello che ci consegna la tradizione, che almeno ci consente di superarne un’accezione meramente quantitativa, per attingerne in profondità quella qualitativa.