Monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita - Agenzia Romano Siciliani
Per la condivisione su una materia irta di incomprensioni serve un dizionario comune. Anche in vista di mediazioni legislative non al ribasso La Libreria Editrice Vaticana (Lev), nella collana “Humana Communitas” curata dalla Pontificia Accademia per la Vita, pubblica il “Piccolo lessico del fine vita” (88 pagine, 12 euro), con l’obiettivo di coniugare divulgazione e rigore scientifico. Monsignor Vincenzo Paglia, presidente dell’Accademia, firma l’introduzione di cui anticipiamo qui una parte.
Il dibattito pubblico sulle questioni di fine vita non è una novità. E tuttavia, negli ultimi anni, si è rafforzato in intensità e ampliato in estensione, anche geografica. Se ne parla frequentemente sugli organi di comunicazione e nei social media, a partire sia da situazioni personali che suscitano scalpore sia da proposte legislative che dividono i Parlamenti. Quando poi nella discussione sono coinvolti bambini e neonati, come è avvenuto più volte negli ultimi anni, le contrapposizioni, valicando i confini nazionali, si fanno ancora più accese e diventano materia di contesa, spesso strumentale, tra schieramenti politici. La partecipazione di porzioni sempre più ampie della società in queste controversie va salutata favorevolmente. Si tratta di temi che riguardano tutti e che hanno una profonda portata sociale e culturale.
Quando sono in gioco la vita, la sofferenza e la morte non possono essere solo i singoli individui che se la debbono sbrigare privatamente, per conto proprio. È perciò un fatto positivo che tutta la comunità si senta coinvolta e chiamata a elaborare in modo condiviso il senso degli eventi più delicati dell’esistenza. Non deve esserci dubbio che essi hanno profonda rilevanza per la comunità intera. Ma proprio per questa diffusione non è raro che i termini del dibattito risultino equivoci. Le stesse parole talora vengono utilizzate con significati diversi, anche perché non sono facili da maneggiare, con il risultato di rendere difficile intendersi non solo per la differenza delle posizioni ma anche per la complessità dei termini.
Mi sembra quindi un servizio importante quello svolto da questo piccolo lessico sui temi del fine vita. Cercando di andare all’essenziale, queste voci intendono essere allo stesso tempo rigorose concettualmente, avvalendosi dei più recenti dati scientifici, e comprensibili ai non addetti ai lavori. L’obiettivo che l’inventario si prefigge è di aiutare chi cerca di districarsi nella giungla di queste tematiche aggrovigliate, in modo da ridurre almeno quella componente di disaccordo che dipende da un uso impreciso delle nozioni implicate nel discorso. Un tentativo che riguarda anche le affermazioni talvolta attribuite ai credenti e che non raramente sono invece frutto di luoghi comuni non adeguatamente scrutinati. (...)
Nell’affrontare i temi evocati dalle singole parole, questo lessico tiene conto del contesto pluralista e democratico delle società in cui in cui il dibattito si svolge, soprattutto quando si entra nel campo giuridico. I diversi linguaggi morali non sono affatto incomunicabili e intraducibili, come alcuni sostengono; lo sforzo che ciascuno compie per comprendere le ragioni dell’altro e per accettare il dialogo con chi la pensa diversamente favorisce il confronto e un’almeno parziale condivisione delle ragioni valide in favore dell’una o dell’altra scelta. La discussione aperta e rispettosa conduce a un dialogo pubblico capace di influenzare positivamente anche le decisioni politiche, mostrando come le mediazioni tra diverse posizioni non sono necessariamente destinate ad assumere la figura scadente del compromesso al ribasso o della negoziazione per uno scambio di favori politici. Il dialogo appassionato e approfondito, che non si arrende all’ideologia preconfezionata e faziosa, può condurre ad autentiche soluzioni condivise.
In altri termini, il dialogo sinceramente orientato dal rispetto dell’umano che è comune favorisce un percorso di apprendimento reciproco: non solo tra cattolici e non cattolici, ma tra tutti i portatori di diverse prospettive morali e differenti comprensioni del bene. Questo confronto fornisce quindi un contributo alla convivenza in una società complessa che, al di là delle ideologie e della stessa secolarizzazione, assume con vigilante consapevolezza e matura responsabilità la ricerca di forme concrete e praticabili del bene comune e dell’amicizia sociale. Sullo sfondo del nesso tra sfera etica e sfera giuridica, si pone l’altra questione – rilevante per tutti, credenti e non credenti – del rapporto tra etica e fede. L’idea fondamentale, che libera da ogni “fondamentalismo” è che tra etica e diritto non si dia né materiale identità né astratta separazione.
Tra l’etico e il giuridico si dà una relazione reciproca di circolarità, che implica e trova la sua mediazione costitutiva nella cultura che orienta ed esprime il senso comune della qualità umana delle condotte sociali: ossia, il costume e l’ethos dell’appartenenza e della partecipazione alla condizione umana, storicamente percepibile nelle forme simboliche, pratiche e teoriche, della vita di un popolo. In tale orizzonte, il giuridico è una delle forme vincolanti della cultura relazionale (diritto) che impegna tutti, mentre la cultura è il primo accesso all’esperienza della vita buona che dà senso alla libertà (etica). Il buono è implicato nel giusto che vincola la responsabilità comunitaria di ciascuno, ma il giusto regola situazioni differenti, relative al bene comune della vita sociale di tutti.
Ne deriva che una legge giuridica non va né sottostimata, come se non avesse alcuna rilevanza nel campo etico – qui si pone il classico tema del “pendio scivoloso” –, né sopravvalutata, come se essa potesse da sola determinare il costume e l’agire; essa ne è infatti più il “frutto” che la “causa”. Proprio nella cultura si apre il tema della presenza e della testimonianza dei credenti, in quanto anch’essi partecipano al dibattito pubblico, intellettuale, politico e giuridico. Il contributo dei cristiani si realizza all’interno delle differenti culture: non sopra – come se essi possedessero una verità data a priori – né sotto – come se fossero portatori di un’opinione senza impegno di testimonianza della giustizia condivisibile: soggettivamente rispettabile, ma pregiudizialmente parziale e dogmatica, dunque oggettivamente inaccettabile. Tra credenti e non credenti si stabilisce così una relazione di apprendimento reciproco.
Il contributo dei cristiani riguarda la testimonianza delle forme dell’umano implicate nel Vangelo di Gesù, come la tradizione migliore e il Magistero più alto testimoniano nel corso dei secoli, continuando a costituire un riferimento di prima importanza. In questa prospettiva di lungo termine e di orizzonte ampio va anche interpretata la recente Dichiarazione Dignitas infinita, che si pone su un piano eminentemente dottrinale. Possiamo anche notare come il documento non elabori una riflessione d’insieme sul rapporto tra etica e sfera giuridica. Rimane quindi aperto lo spazio per la ricerca di mediazioni sul piano legislativo, secondo il tradizionale principio delle “leggi imperfette”. In questo modo i credenti assumono la loro responsabilità di rendere ragione a tutti del senso etico (universale) dischiuso nella fede cristiana.
Presidente Pontificia Accademia per la Vita