Eluana con la madre Saturna, morrta nel 2015
Nel decennale della morte di Eluana Englaro si è tornati a inquadrare la vicenda dentro il perimetro della (presunta) volontà della giovane di non sopravvivere nella condizione in cui, purtroppo, si è trovata dal 18 gennaio 1992, giorno dell’incidente stradale che l’ha ridotta in stato vegetativo, al 9 febbraio 2009, quando è deceduta dopo essere stata privata di cibo e acqua. In interviste, articoli e convegni è stata, ancora una volta e unicamente, riproposta la tesi accolta anche nella sentenza della Corte d’appello di Milano, da cui è derivato il protocollo che l’ha portata a morire. Ma sulla vicenda di Eluana esiste anche un’altra verità, molto meno propagandata ma non per questo meno credibile, che in tutti questi anni nessuno è riuscito, prove alla mano, a confutare. Una verità che Avvenire ha raccolto e raccontato nei giorni dolorosi dell’agonia della giovane nella clinica di Udine e che ora, un decennio dopo, ripropone per rendere giustizia ai tanti che allora si mossero per impedire che all’amica, alla compagna di scuola, all’ex-allieva fosse riservata una fine tanto atroce. Come, invece, avvenne.
«Non l’ho mai sentita fare discorsi di questo genere. Non ricordo una sua posizione così ferma e decisa su questi argomenti. Che, in ogni caso, com’è facilmente intuibile, non erano al centro dei pensieri di ragazze nemmeno ventenni». Così parlava Laura Magistris, per cinque anni compagna di classe di Eluana al Liceo linguistico “Maria Ausiliatrice” di Lecco. Testimonianza confermata anche da altre due compagne di scuola, Federica Airoldi e Flavia Monti, intervistate dieci anni fa da Avvenire. Ma le tre non sono state mai sentite dai magistrati milanesi che firmarono la sentenza. I giudici ascoltarono unicamente la versione di altre tre amiche di Eluana, tutte concordi nel sostenere che la ragazza, vedendo un amico in stato vegetativo dopo un incidente in moto, avrebbe detto: «Meglio morire che finire così». Strano l’abbia detto solo a loro e non alle altre, che pure erano molto legate a Eluana e che in più occasioni hanno confermato che «mai l’abbiamo sentita parlare così». Perché la loro testimonianza non è stata raccolta da nessun magistrato?
Lo stesso vale anche per un altro grande amico di Eluana, Nicola Brenna, che non è stato convocato dal Tribunale chiamato a decidere della sorte della giovane. Forse perché, come scrisse in una lettera del 19 novembre 2010 al direttore di Avvenire Marco Tarquinio, «nel profondo di me stesso sentivo che quella vita, anche a un livello così minimo di coscienza, era comunque una vita, una cosa misteriosa che non mi sarei mai sentito di sopprimere»? Nella lettera, Brenna ricorda la frequentazione con il padre di Eluana, Beppino, con cui spesso si è trovato a discutere delle condizioni della figlia. «Questa mia posizione – si legge ancora nella lettera – non è emersa da idee astratte o da suggestioni ideologiche, ma dal confronto con chi la pensava diversamente e dal giudizio sulla realtà che mi stava di fronte».
Le falle nella sentenza della Corte d’Appello non finiscono qui. Tra le più grosse c’è la lettera che Eluana scrisse, nel dicembre 1991, a suor Rina Gatti, la sua ex insegnante di Lettere al Liceo delle Salesiane di Lecco. «Ho deciso di ricominciare da te. La mia educatrice – scrive Eluana alla religiosa –. Volevo dirti sinceramente che mi manchi». Davvero strano che, due anni dopo essersi diplomata, Eluana scriva queste frasi così piene di affetto a una rappresentante di quella istituzione, la scuola cattolica, che, leggendo la ricostruzione della sua personalità fatta dalla Corte d’Appello, avrebbe provocato in lei «forte crisi di rigetto e di insofferenza». Così come è strano che, ancora nella sentenza, si faccia riferimento al cambio di università deciso da Eluana nell’ottobre del 1991 tralasciando però il particolare che la giovane scelse di transitare dalla Statale alla Cattolica di Milano. Forse perché, come scriverà di lì a poco a suor Rina, «mi trovo molto bene! Ho dei professori eccezionali! Da quando sono iniziate le lezioni, il 6 novembre, non ho perso neanche una lezione!». Insomma, la «crisi di rigetto» e l’«insofferenza» verso le istituzioni cattoliche, più volte richiamate dalla Corte d’Appello, non sarebbero state così forti, visto che Eluana, a due anni dal diploma, ricorda con entusiasmo e sincera gioia il periodo del Liceo dalle suore, e dopo decide di lasciare l’università Statale per la Cattolica. Ma di tutto ciò, nella sentenza non c’è traccia.
Poi c’è la “notte della tosse” nella struttura di Udine dove Eluana era stata portata a morire. O meglio, dove doveva essere curata, almeno stando al “Piano di assistenza individuale” redatto apposta per lei, finalizzato al «recupero funzionale e alla promozione sociale dell’assistita». Niente di tutto ciò sarà fatto a Eluana, alla quale sarà negata anche la fisioterapia, trattamento indispensabile per chi è in stato vegetativo. Ma torniamo alla tosse.
«È morta diciassette anni fa», assicurava il medico anestesista che l’aveva accompagnata in ambulanza da Lecco e che, al termine del viaggio, era sceso «devastato», senza peraltro spiegare da cosa. Eppure quella notte Eluana tossisce, di una tosse ribelle alla sentenza di morte che l’avrebbe fatta morire davvero. Una tosse che, si legge in un editoriale di Lucia Bellaspiga su Avvenire del 6 febbraio 2009, «squassa le prime coscienze». E in tanti cominciano a considerare anche quest’altra verità sulla tragedia della giovane lecchese.