«E se si potesse decidere, alla fine della propria vita, esattamente quando e dove avverrà la morte? E se invece di morire da soli, nel cuore della notte, in un letto d’ospedale, poteste essere a casa vostra in un momento di vostra scelta? Potreste decidere chi sarà nella stanza con voi, tenendovi la mano o abbracciandovi mentre lasciate questa Terra. E se un medico potesse aiutarvi a garantire che la vostra morte sia confortevole, pacifica e dignitosa? E se poteste pianificare un’ultima conversazione con tutti i vostri cari? Potreste non vedere più la morte nello stesso modo». Sembra l’inizio di un racconto distopico, che potrebbe continuare così: "Nel 2350 nell’isola Taldeitali decisero che era venuto il tempo di iniziare un esperimento sociale...". E invece queste domande sul morire sono l’inizio di un libro appena pubblicato, in inglese: è il racconto autobiografico di Stefanie Green, dottoressa che dopo più di 20 anni di pratica – 12 dei quali nel reparto maternità – ha deciso di cambiare ambito di lavoro e applicare la Maid (Medical Assistence In Dying), la legge canadese sulla morte medicalmente assistita. This is assisted dying (questa è la morte assistita), il titolo, con un assai esplicativo sottotitolo la cui chiave di lettura è la parola empowering, che potremmo rendere con “conferire potere”: il fine vita come potere di controllo su di sé.
È il libro che tutti dovrebbero leggere per capire cos’è l’eutanasia al nostro tempo: non un tentativo estremo e disperato di risposta a una malattia senza speranza, inguaribile, con dolore fisico e psicologico non trattabile altrimenti, ma la possibilità di scegliere quando e come morire. Non una questione di etica medica, quindi, ma squisitamente antropologica, perché «ho constatato più volte il potere che il diritto di scegliere il momento e il modo della morte conferisce alle persone», dice espressamente Stefanie Green nell’introduzione al suo libro di quasi 300 pagine in cui le storie delle morti procurate si susseguono, ognuna diversa dall’altra, ognuna un tassello del puzzle che disegna la mappa del Mondo Nuovo, dove l’autodeterminazione trionfa. È il nostro mondo, che già c’è: le vicende sono già accadute, le leggi sono già in vigore e la dottoressa Green è diventata presidente di Camap, l’associazione canadese di chi valuta e procura la morte assistita, essendone stata fondatrice con altri colleghi pionieri del settore, solo qualche anno fa (la legge canadese è del 2016).
Le morti sono tutte raccontate come belle e desiderabili perché decise e pianificate dettagliatamente da chi ha voluto l’eutanasia, e vissute con piena consapevolezza. Secondo la legge chi vuole morire deve essere in grado di confermare la propria richiesta immediatamente prima dell’esecuzione, e per questo deve essere vigile fino all’ultimo. Katie, per esempio, ha novanta anni, il cuore ormai debole e si sta rapidamente consumando per l’età, un deterioramento sempre più veloce nonostante il vigore della sua lunga esistenza: felicemente sposata da 69 anni, con sei figli e poi nipoti e pronipoti, ha deciso di non aspettare ulteriormente per morire. È in camera sua, Stefanie Green le dà l’ultima parola, e mentre le inietta i quattro farmaci indicati dal protocollo i presenti ricordano fatti e oggetti legati alla vita dell’anziana donna, dalla marmellata di fragole ai calzini lavorati a maglia. Otto minuti per una nuova ritualità del morire, con l’ultimo saluto in un Mondo Nuovo dove non c’è spazio per un qualche Dio ma solo per i ricordi terreni, in una dimensione unicamente orizzontale dove della trascendenza sono sparite persino le tracce.
Stefanie Green sa, perché glielo hanno spiegato i medici olandesi esperti di morte procurata, che è bene «dare una coreografia all’evento», per esempio stabilire cosa dire alla fine, sapendo che quelle saranno le ultime parole che il paziente ascolterà. La Green di solito suggerisce di chiudere gli occhi pensando a un bel ricordo; cerca di lasciare spazio alle persone intorno, e talvolta deve spiegare loro che chi ha chiesto di essere ucciso ha fatto una scelta, «difficile, o anche coraggiosa». Come Liz, che «ha una malattia che la porterà alla morte, ma sta scegliendo di morire alle sue condizioni, nel modo che ha scelto, nel momento che ha scelto e circondata dalle persone che ama». C’è chi muore dopo una bella festa con gli amici, chi vuole stare da solo, chi abbracciato a letto con la compagna della vita, spesso ascoltando la musica preferita. È il medico a garantire che tutto vada come minuziosamente previsto, nel suo nuovo ruolo di officiante dell’evento, oltre che di esecutore materiale. E se l’eutanasia è questo morire programmato, è evidente che le cure palliative non sono un’alternativa e non vengono nemmeno considerate come tale. Non stupisce che l’epilogo del libro sia la descrizione dell’ampliamento dell’accesso alla morte assistita nella legge canadese: sono sempre di più quelli che preferiscono morire piuttosto che vivere. Per scelta.