giovedì 18 luglio 2019
Faustina Lalatta 40 anni fa creò il Laboratorio di genetica alla Mangiagalli di Milano: i genitori non accettano più imperfezioni del feto
(Foto Ansa)

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Quando arrivò alla Mangiagalli, all’inizio degli anni Ottanta, fresca di laurea, il Dna del feto era solo un calcolo delle probabilità. Si sapeva cos’era la fibrosi cistica, si conosceva la talassemia, ma non c’erano ancora test per monitorare la presenza dell’anomalia nei geni del bambino che sarebbe nato. «Parlavamo di rischi in termini probabilistici, ed era tutto», racconta. Oggi che va in pensione dopo 38 anni di servizio all’Unità di genetica medica da lei creata nella più grande clinica ostetrica del Nord Italia, la dottoressa Faustina Lalatta osserva che il mondo è cambiato. Lo sviluppo dei test genetici e il loro massiccio impiego in gravidanza hanno modificato per sempre la relazione tra madre e figlio ancora in pancia. In questa intervista racconta come.

Dottoressa Lalatta, cosa la spinse a specializzarsi in Genetica?
Mi fulminò la prima lezione con il docente di Genetica medica, il professor Morganti. Disse: la parola 'genetica' è molto vicina a 'eugenetica'. Fate attenzione, continuò, perché dobbiamo ripulirci da questa idea. Tante volte nella mia carriera ho fatto risuonare in me queste parole, perché nella diagnosi prenatale quando si affronta il concetto di rischio il 'pensiero eugenetico' è sempre dietro l’angolo. Non ci possono essere equivoci: i genetisti non lavorano per 'migliorare' la specie, ma per aiutare le persone a prendere decisioni consapevoli e informate.

La genetica è tra gli ambiti della medicina che hanno conosciuto lo sviluppo più impetuoso. 40 anni fa come si lavorava?
Con il calcolo probabilistico. Ai futuri genitori parlavo di rischio riproduttivo, e questo in molti casi frenava la decisione di avere un figlio. All’inizio degli anni Ottanta iniziammo a effettuare amniocentesi e villocentesi. Passare dalla probabilità alla definizione diagnostica, cioè letteralmente vedere la lesione genetica, è stato un cambiamento radicale. Ci sembrava che tutto diventasse chiaro, ma emersero subito importanti aree di dubbio interpretativo. Poi sono arrivati gli esami metabolici e quelli del Dna. Nel 2000 fu descritto l’intero genoma, ma anno dopo anno abbiamo rilevato che esso ci pone difficoltà interpretative forse insormonta- bili. Sappiamo sempre di più ma dobbiamo arrenderci alle zone grigie.

La scoperta del genoma ha avviato anche un grande business. Quali ne sono gli effetti?
Le aziende ora vendono i test su internet. Le persone pagano per vedere il proprio genoma, tutto intero, ma poi non hanno gli strumenti per interpretarlo. Emergono fattori di rischio o mutazioni che gettano le persone nell’angoscia, nella maggior parte dei casi senza motivo. Il profitto batte tutto e il medico genetista non ha più in mano il processo.

Quanto sono diffusi gli esami genetici in gravidanza?
Tecnologie molto avanzate hanno reso disponibili esami come il Dna fetale nel sangue della madre, il Dna fetale circolante… Esami ormai di prassi. Tutti li vogliono effettuare, ma il ministero della Salute non intende coprirne la spesa e non a caso. Ciò però lascia spazio a una feroce concorrenza tra aziende. Le donne in gravidanza confrontano i depliant, si convincono che si può fare. A 10-12 settimane di gestazione arriva a casa il kit per il prelievo, poi il responso arriva a casa. Tutto in solitudine, tutto senza nessuna preparazione.

E questi test funzionano?
Identificano bene la Sindrome di Down, ma sono meno validi per altre malattie rare. Inoltre fanno emergere variazioni come il Triplo X o la Sindrome di Klineferter, che sono variazione genetiche frequenti, non abbinate a sintomi disabilitanti. Ma i genitori, lasciati da soli, con il foglio del responso in mano, vanno in tilt, consultano internet, si confondono. Nemmeno il ginecologo sa bene cosa dire. Alla Mangiagalli, per contro, proponiamo incontri di preparazione ai test genetici prenatali. Incontriamo 50 donne a settimana, e abbiamo notato che ciò servono a smontare paure, a contenere le angosce, tanto che riscontriamo una notevole diminuzione delle richieste di interruzione di gravidanza. Ma raggiungiamo solo un piccolo numero: 50 donne a settimana su circa 1.000 che effettuano i test…

Se la consulenza genetica fosse più accessibile, si potrebbero salvare molte vite?
Un accesso più veloce alla consulenza genetica, sia prima che dopo il test prenatale, aiuta la madre a riprendere fiducia nel figlio che sta crescendo dentro di lei. Ecco perché credo molto nella telemedicina. La televisita accorcia i tempi e i costi ed evita un cortocircuito pericolosissimo in genetica prenatale: la gestante effettua un test a cui non è preparata, i risultati parlano di una patologia che non conosce, il ginecologo dice 'togliamoci il problema' oppure 'non so cos’è'... Per ora la televisita è una possibilità solo nel privato, ma in Regione Lombardia c’è già un tavolo di lavoro per l’implementazione con il Servizio sanitario.

Quante donne si sottopongono ai test genetici prenatali privati?
Il 70 per cento delle donne in gravidanza. Quattro anni fa era il 20 per cento. Il costo va dai 500 ai 1.200 euro, a seconda di ciò che si desidera indagare. A questo si aggiungono i test di routine: la translucenza nucale, l’esame ormonale della placenta…

Le gestanti come affrontano questa valanga di test?
Le donne patiscono l’eccesso di rassicurazioni offerto dai test e non sono più disposte ad accettare alcun imprevisto. Al medico chiedono: sicuro che il bambino sia sano? Una pretesa? Insieme all’aumento esponenziale dell’infertilità e dell’età al primo concepimento, questo è il cambiamento più violento al quale ho assistito nella mia carriera. Trent’anni fa quando nasceva un bambino con un difetto malformativo i genitori chiedevano ai medici: come sta il piccolo? Adesso la prima domanda è: chi ha sbagliato, come mai non l’avete visto, perché non mi avete avvisato, cosa dovevo fare di più? Si disperano.

Qual è, invece, l’atteggiamento delle coppie di fronte a un problema del bimbo ancora in pancia?
Una parte è molto interessata a quell’unico figlio, che magari ha faticato a concepire; vuole sapere se la questione si può affrontare e tendenzialmente non rinuncia a quel bambino. C’è però un’altra parte, più rilevante, che esprime intolleranza alla fatica, alla frustrazione. C’è stato un processo lento ma continuo di non accettazione, soprattutto nei confronti della Sindrome di Down.

In quanti, di fronte a un responso dei test, decidono di abortire?
Il tasso di rinuncia di un bambino con la talassemia si è ridotto, perché le coppie sanno che esiste il trapianto di midollo e presto anche la terapia genica. La Sindrome di Down, che è evidente nei tratti fisici, a differenza di altre patologie, è invece abbinata a uno stigma radicato. La percentuale di interruzione in Italia ormai è oltre il 95 per cento.

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