Una stanza dell'hospice di Larino
Ad Antonio i conti non tornano. E dire che li ha fatti per tutta la vita. Ha iniziato al Politecnico di Torino, ha proseguito nelle aule di Economia e commercio e poi come manager, per cinquanta lunghi anni. Ma adesso, all’Hospice di Larino, mentre combatte l’ennesima battaglia contro il cancro, a mandare in crisi la sua personalissima contabilità è la moglie Teresa. Casalinga, piccola e tosta come certe molisane. Lei dice «finché ce la faccio » e non molla mai. Sorride sempre, mentre prepara il fiadone per gli ospiti dell’hospice, l’unico di tutto il Molise. Intitolato a un’altra Teresa dal sorriso che faceva sbarellare i conti, la Santa di Calcutta. «Sono stato un uomo che le ha dato tutto quello che sapeva darle – ci racconta il paziente –, ma, onestamente non la capisco, mia moglie, non capisco come faccia a fare quello che fa senza mai chiedere perché. Né a me, né ai medici, né a sé stessa. Non capisco tutta questa bontà. Questo non chiedere mai nulla, star sempre qui ad assistermi, come se non si stancasse mai. Sa, io ho una stima enorme per lei». Teresa non è solo la seconda moglie di Antonio. Ormai vedovo, tre figli cui è molto legato. «Teresa – scandisce lui col piglio di una volta – è la mia seconda occasione». Che dunque non esiste solo nei romanzi. E quando si manifesta sconvolge i piani, lasciando senza parole. Imponendoci, appunto, di rifare tutti i conti. L’amore, la malattia e la fede erano obiettivamente troppo per la partita doppia di Antonio, un paradigma che poteva sembrare perfetto per decodificare una “vita normale”.
E invece, in questa stanza di passaggio, le meraviglie del mondo si appannano e balzano agli occhi gli “errori” veri, ciò che umanamente facciamo fatica a spiegarci. Rientrano a pieno titolo tra le cose ultime che conferiscono alla vita il sigillo della definitività e che inducono a rileggerla. «Vorrei poter dire all’uomo che ero una volta che si sbagliava – rivela allora Antonio –, cioè che sbagliava a credere solo in sé stesso e nelle proprie soddisfazioni, misconoscendo questi valori e questi comportamenti, questa tenacia nell’amare, questa speranza in qualcos’altro, rispetto ai soldi, agli agi, alla stessa salute». Cerca di comunicarlo anche a chi, nella stanza vicina, implora la puntura finale. Si considera fortunato, dopo una vita passata a credere nel merito. «Qui non avvertiamo dolore fisico, perché ci somministrano sostanze che lo annullano, o lo leniscono molto, ma soffriamo terribilmente. È una sofferenza spirituale, e non se ne esce se non si crede. La fede, è chiaro, non è una medicina e non ti guarisce, ma permette di morire serenamente. Affrontare la morte a fianco di una donna eccezionale e di persone sagge come il dottor Flocco aiuta a dare un senso alla fine, e anche alla vita».
Mariano Flocco è il palliativista della Asrem. Dirige l’hospice pubblico, 16 posti letto sempre occupati. Il primario riesce a gestirli con una tariffa per ricovero medio-bassa, assicurando al contempo, personalmente, anche il servizio domiciliare dell’intera Azienda sanitaria molisana. Quando gli si chiede come faccia, risponde che è «questione di attitudine». Anche lui, come molti di coloro che lavorano qui dentro, porta tatuata nella carne l’esperienza di aver accompagnato una persona cara alla morte in condizioni di sofferenza assoluta. Basandosi su questa sensibilità vissuta e selezionando i migliori professionisti, Flocco ha creato negli anni uno staff motivato. Questo non è un reparto ospedaliero come gli altri; qui l’empatia viene prima della procedura. Non è un caso che nel 2016 quest’antichissima città frentana sia stata insignita della targa di Città del Sollievo; nella motivazione si sottolinea il ruolo di Flocco, «un medico di altri tempi». Unico neo, appunto, è che tutto il dolore del Molise morente ricade sulle spalle di poche persone. D’altronde, in questa regione bella e scomoda, vanno deserti anche i concorsi di altre specialità. Il territorio molisano è impervio e marginale come i percorsi che devi compiere dentro un hospice e che Flocco spiega così: «Noi operatori evitiamo il burnout anche grazie all’assistenza spirituale assicurata da don Michele Valentini, e dai frati Cappuccini, una presenza preziosa per gli ospiti ma anche per il personale.
L’assistenza spirituale non va confusa con quella religiosa» puntualizza mentre percorriamo corridoi tappezzati di quadri e suppellettili religiose. «Ce li lasciano gli ospiti e le loro famiglie: il Molise è devoto alla Madonna, ma ogni paese ha la “sua” Madonna, per cui abbiamo una moltiplicazione delle immagini sacre» spiega il sanitario. Si avverte tutto il pudore di chi opera da una vita nel servizio sanitario pubblico, tuttavia è evidente che tra le cose ultime riaffiorano anche le radici religiose del popolo appenninico. Antonio, che pure ha una formazione scientifica, è devoto ai Santi. Ammette tranquillamente che la fede non cancella la paura. E la descrive così: «Non è quella dell’istante in cui questa vita finisce ma è quella di trovarsi in una condizione in cui non puoi più combattere. Toglie il senso e il senno, quella paura. L’ho provata quando ho perso mio padre, credo che sia ancora peggiore per chi perde un figlio, ti lascia un segno che non puoi cancellare. Comunque, non so quando avverrà il passaggio, ma spero di avere vicino mia moglie e il Signore». Definisce la malattia «un dono di Dio, perché se la accetti ti cambia e trovi il senso ». Non tutti lo capiscono né lo accettano, ammette.
Antonio è arrivato qui con un carcinoma polmonare, dopo un tumore al rene e una lunga immunoterapia, ma questa parte della vita pare avere poca importanza nel suo racconto. Ricorda più volentieri i pellegrinaggi, da Cascia a San Giovanni Rotondo, con l’incomprensibile Teresa sempre vicino. Il bilancio di una vita si chiude in attivo: lancia uno sguardo alla moglie e mormora un «non meritavo tanto». Certi conti non tornano mai.