Confessioni in San Giovanni in Laterano durante la liturgia penitenziale per il Giubileo della Comunicazione - Agenzia Romano Siciliani
Che cosa c’entra il Giubileo con i giornalisti? Che cosa ha da dire a una categoria, oggi incerta come non mai sul futuro e persino sulla propria identità, un evento come l’Anno Santo? Che cosa cercavano, oltre all’incontro con il Papa, le migliaia di professionisti della comunicazione accorsi sabato scorso in Vaticano? E, per non nascondersi dietro considerazioni generali, che cosa cercavo io? Le domande si sono affacciate fin dall’inizio della tre giorni vaticana, durante la celebrazione penitenziale, quando l’esame di coscienza è ineludibile e, passeggiando col pensiero nel giardino dove sono fiorite le tue piccole vanità, finisci per inciampare nelle buche delle omissioni: quelle battaglie che dovevi condurre a penna sguainata in difesa di chi non ha voce e hai preferito ridimensionare a eleganti duelli retorici. O peggio: quei tuoi sguardi distratti che non hanno colto la solitudine, la fragilità e la sofferenza dove pure c’erano, perché eri abbagliato dalle luci che illuminavano i soliti al centro della scena. E magari anche tu godevi a far dirigere qualche raggio di quei riflettori su di te, piuttosto che calarti nelle penombre di chi non è protagonista di nulla, neppure della sua vita.
Ecco, più ancora degli errori compiuti (tanti certamente, ma di norma in buonafede) personalmente sono le cose non fatte che mi pesano come il tradimento peggiore della professione. Perché se è vero, come ha scritto il Papa, che il giornalismo è “una vocazione e una missione” (ma in fondo tutti i lavori onesti lo sono) per un cristiano queste parole hanno un duplice significato e per un giornalista cattolico, per di più di un giornale della Chiesa italiana qual è “Avvenire”, pesano il doppio, il triplo quanto a esigenze e responsabilità che comportano. Maria Ressa, giornalista filippina perseguitata e premio Nobel per la pace, nel suo appassionante intervento in Aula Nervi ha richiamato con una potenza straordinaria il senso profondo del fare giornalismo. Meglio, dell’essere un giornalista. Fra le priorità ha citato quella che ho sempre pensato dovesse essere la mia risposta alla vocazione di giornalista (e uno degli scopi principali di “Avvenire”): « proteggere i più vulnerabili», non permettere che soccombano, farsi portavoce delle loro difficoltà ed esigenze, provare a migliorarne la vita, essere perciò «operatori di pace», dispiegare e spendere così il potere che abbiamo e ho. “Regnare è servire” e anche la comunicazione dev’essere anzitutto servizio. Può essere una forma di carità.
Ancora Maria Ressa ha detto che tutto questo ha «a che fare con l’amore», e in un altro passaggio ha richiamato il comandamento fondamentale: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. La risposta alle domande iniziali probabilmente sta qui. Ciò che in molti cercavamo in questo Giubileo è proprio il senso stesso dell’Anno Santo: la possibilità di ricominciare. Ripartire dai fondamentali per ritrovare e ribadire il senso vero di ciò che si fa e quindi di sé stessi, pur in mezzo a un turbinio di cambiamenti, anche pericolosi. E non è forse proprio questo la speranza posta al centro dell’Anno Santo? Per chi ha fede questa speranza si basa su un Fatto avvenuto duemila anni fa e su una Notizia che da allora non cessa di essere buona e attuale. Saper “rendere ragione” di questa speranza, della libertà e salvezza che promette e fa sperimentare, farla emergere dalle crepe, farla risultare possibile anche dove il male sembra averla vinta, è rispondere per davvero alla propria vocazione di giornalista.