Kabul, aprile 2006 – Camp Invicta era una caserma sovietica. Si vede: blocchi di cemento nudo, sgraziati, già sbrecciati dal gelo dell'inverno afghano. Nella mensa invece è Italia profonda, nell'odore di sugo, nelle canzoni di Ligabue, nel Crocefisso sul muro, con il suo ramo d'ulivo. Alpini del Nord Est e ragazzi del Sud, sono i nostri. Bella gente, di poche parole. Quando si esce in perlustrazione con gli autoblindo sulla Jalalabad road ci si trova in una coda infinita di enormi Tir infangati, colorati come giostre, in arrivo dal Pakistan, e miserabili carretti tirati da somari. Bambini stretti al burka blu delle madri, e polvere: una finissima polvere di deserto, che brucia la gola. Sobbalzando su buche come crateri si entra in città. Chi avrà distrutto queste case, i russi o i mujahidin o Enduring Freedom? Poco importa. 25 anni di guerra. Metà degli afghani non sa cos'è, la pace.Amin Zai, l'interprete, prima dell'arrivo dei sovietici era un insegnante. Fuggì in Italia con la famiglia; tornò, quando credette il Paese liberato. Ma vennero i mujahidin, e poi le bombe americane. S'infiamma di speranza, il professore, quando parla della nuova Costituzione. Poi, guardando la città devastata dice piano: «Era bella, Kabul, sapete». Come una preghiera, in memoria di una sposa perduta.
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