«Youtuber assassino, vada in carcere» Ma quale giustizia vogliamo davvero?
martedì 6 febbraio 2024
Caro Avvenire, un gruppo di youtuber affittano una supercar per divertirsi e girare un video. Mentre scorrazzano a velocità folle nelle strade di Roma, tamponano un’auto. Nell'urto muore un bambino. Durante il processo il guidatore patteggia 4 anni e 4 mesi. Probabilmente non farà un giorno di carcere. Quindi, si può uccidere per divertimento e uno Stato che è tale solo con i poveri in arnese, derubrica il tutto a un nulla di fatto. Enzo Cuccagna Caro Avvrenire, le sentenze non si discutono. Quando la pena è irrisoria rispetto al delitto, però, meritano almeno l’esecrazione. Mi riferisco all'incidente di Casal Palocco per cui non è previsto nemmeno il carcere. Davvero una vita umana vale così poco? Sergio Bazerla Cari Cuccagna e Bazerla, sono sempre più convinto che nella nostra epoca riacquisti valore l’antica e saggia regola comportamentale per cui bisogna contare fino a dieci prima di rispondere o reagire a uno stimolo che suscita indignazione. Il professor Chiavario ha spiegato su “Avvenire” di sabato scorso come non vi sia nulla di giuridicamente e processualmente irrituale nella sentenza che porterà il responsabile di omicidio stradale ad essere affidato ai servizi sociali. Ma egli stesso notava che spesso si considera la via riparativa e riabilitativa come forma di quasi-impunità.
La psicologia sperimentale ha mostrato che la tendenza retributiva è fortemente radicata nell’essere umano. In alcuni esperimenti dove in gioco sono ricompense monetarie, le persone sono disposte a pagare di tasca propria perché siano sanzionati coloro che non collaborano o trasgrediscono le regole del gioco. Si tratta del “senso di giustizia” che istintivamente ci anima e chiede di vedere punito chi viola le norme della convivenza, in proporzione alla gravità del delitto commesso. Non dobbiamo però dimenticare che si tratta di una forma di “vendetta” sottoposta a vincoli e amministrata dallo Stato a nome della collettività. Qual è la giusta condanna per il giovane che ha provocato (involontariamente) la morte del piccolo Manuel? Difficile dirlo. Ma la vostra idea, gentili lettori, come di molti altri italiani, è che il colpevole debba almeno un po’ soffrire per il dolore procurato. Dobbiamo chiederci se sia sempre la risposta migliore, soprattutto se l’afflizione si infligge attraverso la reclusione nelle carceri italiane, dalle quali non poche volte si esce persone peggiori di come ci si è entrati. Nella complessa transizione a un sistema che cerchi di recuperare i rei alla convivenza civile, invece di farne perenni disadattati, ciò che comunque dobbiamo evitare è l’utilizzo di un finto pentimento per sfuggire alle conseguenze dei propri atti criminali. Forse pene accessorie pubbliche - la sospensione a vita della patente, che non preclude la possibilità di viaggiare; lavori socialmente utili (e visibili) - potranno inizialmente placare la nostra
tendenza a rispondere al male con il male senza ostacolare la via appena imboccata di nuove forme di “rieducazione del condannato”, come prescrive l’articolo 27 della Costituzione. © riproduzione riservata
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