Ci lasciamo alle spalle una settimana scandita dal dibattito politico su
alcuni decimali di punto in più o meno sul Pil 2024 (e seguenti). Siamo in vigilia di manovra e quanto più cresce la ricchezza prodotta dall’Italia tanto più potrà essere “generoso” il Governo con la legge di bilancio, dunque prepariamoci a discutere a lungo di zero virgola in più o in meno, con relative conseguenze pratiche. Capita tutti gli anni in autunno, e ogni volta il rischio è quello di concentrarsi sul dito e non guardare mai la luna: se l’Italia fatica regolarmene a chiudere i suoi bilanci è perché si porta dietro un problema di sostenibilità che ha radici profonde e – a meno di interventi strutturali – spiegherà i suoi effetti per decenni.
Stiamo al Pil, ma guardiamolo da un altro punto di vista. E partiamo da una cifra: il 16,3%.
È la quota che si sono “mangiate” le pensioni nel 2021, ultimo anno – dice l’Inps nella sua ultima relazione annuale presentata a fine settembre – in cui si poteva fare un confronto con il resto d’Europa, dove la media è molto più bassa (12,9%) perché gli importi sono più contenuti e la popolazione meno anziana. Nonostante le riforme imbastite dall’Italia che hanno corretto la rotta, l’Inps prevede che l’incidenza sul Pil delle pensioni salirà ancora per almeno un decennio, sfiorando il 18%, e si allineerà al resto d’Europa solo tra una quarantina d’anni. In teoria urgerebbero altre correzioni: le più facili sarebbero due, e cioè ridurre le pensioni o accorciare la vita media degli italiani,
ma entrambe le strade sono difficilmente percorribili. Un’alternativa in realtà c’è, ed è quella di aumentare la produttività di chi lavora o – meglio ancora – favorire la crescita del numero dei lavoratori, tra gli italiani o gli stranieri. Questi ultimi sono mediamente più giovani dei primi, e dal punto di vista previdenziale rappresentano un “affare”.
Vale la pena esplorare le cifre, come quelle elaborate dal XIV rapporto della Fondazione Leone Moressa, che sarà presentato mercoledì al Viminale ed è stato in parte anticipato da lavoce.info. Qui emerge che nonostante una produttività media ancora bassa, per lo più legata ai settori in cui sono principalmente occupati, gli immigrati producono l’8,8% del Pil, ne drenano meno della metà con pensioni e altre misure di welfare e, anche sommando le ulteriori prestazioni pubbliche (scuola, sanità, casa, sicurezza) generano 1,2 miliardi di valore in più di quanto ne costano al bilancio
dello Stato. Non ci vuole molto a capire che un numero maggiore di lavoratori immigrati potrebbe dare un contributo altrettanto maggiore, e quanto più saranno qualificati, tanto più potrà aumentare la produttività e quindi l’apporto al bilancio del nostro Paese.
Mai come in questo caso i numeri non dicono tutto. Ma offrono qualche indizio per pensare a un futuro diverso e, potenzialmente, migliore di quello in cui ci troviamo proiettati. La chiave, tanto per cambiare, è nella sostenibilità: economica, ambientale, sociale.
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