I bilanci sono necessari. Ci ricordano che forse esiste nel meccanismo della storia (quella soltanto nostra come pure la storia del mondo) un margine per quello che un pensiero approfondito sulla vita può cogliere sotto forma di insegnamento. Benché tante volte la storia ci appaia blindata, predefinita e indifferente a quanto noi possiamo fare, è decisivo pensare che non è così. Vale la pena che ci interroghiamo sui cammini percorsi. Vale la pena soppesare il tempo, quello che noi ne facciamo e quello che esso fa di noi. Non è la stessa cosa attraversare la vita senza un vero confronto con la realtà, o invece con l’audacia di mantenere gli occhi aperti, disposti a interpretare la storia non come automatismo ma come maturazione.
Il verbo “produrre”, per esempio, che è diventato un parametro obbligatorio di valutazione di ogni attività umana, è un verbo parziale, povero. “Produzione”, “produttività”, “prodotto” possono essere termini utili per l’elaborazione degli arsenali grafici con cui tentiamo di catturare la morfologia della vita, ma non ne toccano l’essenza. C’è in essi una soppressione della complessità della nostra esperienza su questo mondo, un grigiore camuffato di neutralità davanti a quello che la vita davvero è. Che questo vocabolario si trovi disseminato un po’ dappertutto come modello di comprensione del reale la dice lunga sulla riduzione di senso che stiamo accettando di vivere.
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