Questa mattina le notizie peggiori sono, temo, quelle che mancano. Paktika, la regione dell'Afghanistan colpita da un terremoto del sesto grado, è isolata. Le vie d'accesso, già scarse, sono inondate da improvvise forti piogge. Interrotte le comunicazioni. La Rete, se poi c'era in quei villaggi fra le montagne, saltata. Paktika già era un posto fuori dal mondo, ora lo è del tutto. Mille morti? Si allarga attorno a quella zona il terribile silenzio di quando, in realtà, non si sa quasi nulla, perché tutto da quei villaggi tace.
Più che ai morti però penso ai vivi, a chi è intrappolato tra le macerie e grida e urla, ma niente, nessuno risponde. Penso a chi nel buio scava con le unghie, alle madri rimaste sotto con i bambini; e a chi è fuori, invece, salvo, ma impotente davanti alle rovine di una casa in cui c'erano quelli che amava. Troppo dolore emana, nel silenzio, da quel punto dell'Asia. Sono quei giorni in cui, lo ammetto, chiederei a Dio perché, con rabbia. Gente già tanto povera, massacrata dalla guerra, assediata dalla fame, e ora un terremoto: e, sopra ancora, il fango. Perché?
Dall'Afghanistan però, leggo, i talebani hanno chiesto aiuto al mondo: aiuto, al nemico Occidente. Possibile che la miseria e l'impotenza siano infine oggi, laggiù, più forti dell'odio? Sarebbe una notizia, questa. La sola buona, la sola sorprendente.
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