Il processo per l’omicidio di Walter Tobagi fu celebrato nel 1983 nell’aula bunker davanti al carcere di San Vittore. Questo eliminava i rischi nel trasferimento dei detenuti, quelli della Brigata 28 Marzo e Marco Barbone, il “pentito” che molti ex compagni avrebbero voluto morto.
Ogni mattina in aula seguivo il processo per un quotidiano del pomeriggio. Avevo poco più di vent’anni, come quei ragazzi dietro alle sbarre. Ma eravamo su fronti opposti. Loro terroristi, io incensurata, loro in prigione, io libera. Eppure figli, loro ed io, della borghesia milanese, buone scuole, buone famiglie.
Li guardavo con imbarazzo dentro la gabbia di ferro, tanto somigliavano a me, ai miei amici. Non avrei magari potuto essere lì con loro, se una sera fossi finita nella casa sbagliata, con la gente sbagliata? Pensavo agli scambi dei treni, fuori dalle stazioni: scattano e sembra un niente, ma poi i binari divergono, e vanno lontani.
Arrivò il giorno della sentenza: per Barbone solo otto anni e sei mesi, in virtù del “pentimento”.
Dai “compagni” in fondo all’aula, un urlo corale, profondo: di disprezzo. Una folata scura di rabbia. Lo sento ancora, quell’urlo.
Alzai gli occhi, gli imputati impassibili. Ma quanto, quanto simili a me, ai miei compagni di liceo, pochi anni prima. Come davvero fosse scattato, in un certo istante, uno scambio: noi salvi, e loro dirottati lontano.
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