Anche soltanto leggendo i giornali viene sempre più spesso da pensare quanto sia difficile, complicato, eppure necessario, mettere in comunicazione linguaggi e sfere di pensiero come economia, etica, ecologia, antropologia, teologia, politica nazionale e geopolitica. Naturalmente i filosofi sembrerebbero per tradizione i più adatti a universalizzare, più che a specializzare, i diversi saperi e punti di vista, le teorie dell'essere, del pensare e del fare: ma neppure loro riescono a realizzare quel tipo di sintesi che solo le religioni, in quanto premoderne, e non specializzate, riescono a fare. Arti e scienze dialogano poco, c'è bisogno di tradurre i risultati delle une in quelli delle altre. Da un lato la vita del singolo, dei singoli esseri umani in quanto valore in sé, dall'altro la vita sociale e pubblica, quella della specie umana e della sua storia, ci appaiono come dimensioni certo non separabili, ma neppure immediatamente coincidenti. Mi viene in mente un aforisma di uno dei nostri migliori poeti di fine Novecento, Giovanni Giudici, in parte cattolico e in parte marxista: «La storia dura la vita di un uomo, non è vero che dura millenni». Ogni singola vita contiene tutto il destino del genere umano e in questo è sacra. L'ultimo film di Marco Bellocchio allude a questo fin dal titolo: Marx può aspettare, frase che nel '68 fu detta al regista dal fratello che poco dopo si sarebbe suicidato. Erano due giovani e uno diceva all'altro che per risolvere il problema della propria vita bisogna impegnarsi politicamente, seguendo Marx. Per l'altro, invece, Marx non era tutto, non bastava a salvare una vita, la propria, anche se insegnava a «cambiare il mondo». Molto prima, nel 1942, un giovane scrittore e filosofo, Albert Camus, esordì con un libro, Il mito di Sisifo, che si apriva con queste righe: «C'è un solo problema filosofico veramente serio: è il suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al problema fondamentale della filosofia. Il resto (...) viene dopo». La cosa sorprendente è che Camus, a ventinove anni, scrisse quelle parole quando era in corso la Seconda guerra mondiale e i nazisti avevano occupato la Francia. C'era di che impegnarsi attivamente nella lotta politica e Camus si impegnò, senza credere tuttavia che tutto il senso della vita fosse lì. Tre secoli prima era stato il problema del famoso monologo di Amleto, «essere o non essere». Fra quello che si fa e quello che si è, dovrebbe esserci coerenza, eppure la differenza, il vuoto resta. Che cosa manca?
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