domenica 25 febbraio 2018
Lo scenario cambiò ancora una volta. Eravamo oramai lontani dai frutteti allineati come scaffali di un supermercato. Dopo una zona incolta, dove le piante crescevano di nuovo senza etichette, entrammo in una foresta che mi ricordava le fiabe che mio padre mi leggeva prima di rimboccarmi le coperte. Pensai da principio che le mie impressioni fossero dovute alla stanchezza: ero in preda a qualche illusione fomentata dalla sonnolenza? Ma Ugo confermò: gli alberi erano proprio scolpiti come figure di streghe, fauci di bestie, forme poliedriche, qualsiasi cosa, ma non semplici tronchi di alberi. Viceversa le rocce erano lavorate per assomigliare ad arbusti e le pietre erano fiori o piccoli roditori di specie diverse. Credetti di riconoscere anche Topolino. Presto ci ritrovammo, e la cosa non ci stupì più di tanto, in un labirinto fatto da siepi verdi. Come a Versailles si potrebbe dire, ma molto più lungo e tortuoso. Ci vollero più di sei ore per trovarne l'uscita – verso quale santuario, quale segreto ben custodito? Eravamo tornati indietro da decine di vicoli ciechi, avevamo esitato davanti a centinaia di incroci, attraversato strettoie di spine, impigliate le tonache e scorticati gli avambracci; potevamo credere che quegli avanti e indietro, quelle svolte e deviazioni ci avrebbero condotto al sancta sanctorum. Alla fine, quelle innumerevoli biforcazioni ci avevano portato a circa un metro dal punto di partenza. Ugo ed io non interpretavamo allo stesso modo le intenzioni del Dedalo autore di quel labirinto e questo spinse la nostra conversazione in altri meandri. Io sostenevo che non poteva che essere un individuo lucido ma perverso, che cercava di dimostrarci che l'umanità è capace di spendere un'energia enorme per arrivare a un risultato quasi nullo. Fratel Ugo affermava al contrario che era un poeta che voleva farci sperimentare la formidabile avventura che c'è in un singolo passo. Era diventato indubbiamente molto accomodante. Crollai vicino a un albero a forma di orso che mostrava le zanne. L'indomani mattina, stavamo ancora camminando tra i boschi scolpiti quando sentimmo tutta una cacofonia di voci. Numerose persone parlavano, o piuttosto declamavano, contemporaneamente. La confusione poteva ricordare un'orchestra che si accorda prima di un concerto o il salone di una scuola di teatro con i giovani attori che ripetono simultaneamente i loro testi, sovrapponendo Shakespeare e Molière, Calderón e Pirandello... Alzammo la testa. C'erano delle case sugli alberi e il pigolio superava quello di un battaglione di passeri. Avevamo appena notato una scala di corda sospesa a una piattaforma che subito, appeso a un ramo e manifestamente contentissimo di farci sobbalzare, in un rumore di ferraglia sbucò davanti a noi, un uomo carico di collane, di sonagli e di anelli multicolori. Aveva la bocca truccata da stella arancione e gli occhi da petali di viola. Alcune piume ornavano le sue spalle. Non aspettò i nostri saluti per cominciare in men che non si dica con magniloquenza di attore e quasi senza mai prendere mai fiato: – Buongiorno! Buona giornata! Lieto momento! Felice incontro e meravigliosa stella, lassù, sulle nostre teste per presiedere e prodigare cose favorevoli e propizie! Oh! Oh! Non abbiate timore, non tremate e siate senza paura! Suppongo che proveniate dai Denarioni e che giungiate da quel popolo puntiglioso e taccagno. Non cercate la vostra agendina, non portate la mano e le dita suoi suoi fogli e le sue pagine per redigere e scrivere. Qui, dove vi trovate, tutto è gratis, niente si paga e niente costa. Non viviamo ed esistiamo solamente grazie ai doni e alle offerte, perché, come dicevano gli antichi e dichiaravano i nostri antenati, tutto è grazia e la grazia è tutto e l'essere è totalmente gratuito e la totalità graziosamente è... Permettetemi, autorizzatemi, accordatemi la licenza di leggervi e recitarvi la poesia che invento e improvviso in questo stesso istante in vostro onore, omaggio e considerazione, perché siamo un popolo di poeti appassionati di poesia che poetizzano la poetica stessa, una comunità di cantanti coristi, un'assemblea di ballerini danzatori di valzer, che solo hanno fiato per la lode e la glorificazione della realtà reale che è sempre e continuamente un prodigioso miracolo splendente,
favolosamente formidabile e sorprendentemente stupefacente... Sciorinava la sua tirata gesticolando e ticchettando con tutte le sue membra. Ogni tanto faceva la riverenza, ora si accovacciava, ora girava su se stesso. A un certo punto fece anche un salto all'indietro. Era senza dubbio un artista. L'avrei imparato nel seguito: un Gracide è sempre entusiasta e d'accordo con te, ma la sua approvazione si esprime con una tale ridondanza di superlativi e di contorsioni da tagliarti la parola più del biasimo di un interlocutore ostile. Non trascriverò la sua poesia di benvenuto che diceva in 300 versi ciò che avrebbe potuto dire in due parole. In quella circostanza, stupendomi di me stesso, reagii non come un Alceste ma come un Filinte, con indulgenza e anche con piacere. Ero affascinato senza saper perché. Era per avere riascoltato le parole di santa Teresa di Lisieux: «Tutto è grazia»? Era a causa di quella sincera opposizione allo spirito calcolatore dei Denarioni oppure perché potevo sfuggire per un po' al soffocante faccia a faccia con fratel Ugo? Questo ultimo si mostrava più riservato, quasi malfidente, forse a causa di una certa gelosia. Era stordito dalle circonlocuzioni del nostro ospite, e arrivò quasi a tapparsi le orecchie quando costui declinò il suo nome che contava non meno di 273 sillabe. Era come se avessimo scambiato le nostre posizioni davanti al labirinto. Io vedevo adesso la poesia laddove Ugo non percepiva che assurdità.
L'uomo delle 273 sillabe – di cui avevamo potuto trattenere solo l'ultima, e dunque lo chiamavamo semplicemente “Tâ” – ci invitò ad arrampicarci nella sua casa, una bicocca sbilenca ingombra di oggetti eterocliti. Là, ci commentò alcuni passaggi della sua Enciclopedia degli animali immaginari e anche del suo Dizionario delle parole inesistenti. Da molti anni si dedicava alla redazione di un Trattato di Inutilologia; stava lavorando sulle attività umane che non avevano nessuno effetto, né positivo né negativo, sul bene comune della società. Bisognava aspettarsela lunga. Cinque donne entrarono portando pietanze arcobaleno in piatti stracarichi. Ci servirono col profilo basso di schiave sottomesse: – Ecco le mie spose coniugi compagne! esclamò gioiosamente Tâ. Sono votate e dedite alla causa della poesia…
(Continua. Traduzione di Ugo Moschella)
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI