Lodate, lodate: questo è il mio consiglio. Non abbiate riguardi, urlate i vostri complimenti in faccia alla gente e ripeteteli anche alle sue spalle, se avete motivo di credere che saranno riferiti. Non perdete occasione di dire una parola gentile.
È diventato in inglese il titolo di una rivista di costume, Vanity Fair, "La fiera delle vanità", ma è stato innanzitutto il titolo di un romanzo molto popolare dello scrittore inglese (nato in India nel 1811) William M. Thackeray. La storia di due ex-compagne di scuola, Becky e Amelia, l'una arrivista di pochi scrupoli, l'altra virtuosa ma sciocchina, diventa l'occasione per tracciare un quadro satirico della vita inglese del primo Ottocento, segnata dall'ipocrisia. Da quel romanzo estraggo un "consiglio" che ha due volti. Il primo è decisamente discutibile, anzi deprecabile, ed è l'esaltazione dell'infingimento, dell'insincerità, della simulazione.
Un proverbio arabo dice che è «molto meglio una lode falsa di un rimprovero vero». È ciò che si suggerisce nel passo citato: ci si invita a dar mano alla manovella della lode perché - ci si può scommettere - l'altro abbocca sempre. È così che nasce e fiorisce in tutti i campi (nessuno escluso!) l'adulazione ipocrita, il servilismo, l'incensamento, la sviolinata, il panegirico e spesso non si teme neppure il ridicolo in questa gara di piaggeria soprattutto nei confronti del potente di turno. Ma c'è un altro aspetto, questa volta positivo. Perché non riconoscere il vero valore di un altro? Perché non lodare un'opera ben fatta anche da un avversario? E soprattutto perché non avere una parola gentile nelle relazioni con gli altri, adottando uno stile di garbo e cortesia, di amabilità e urbanità?
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