Suonò il telefono, era molto tardi. Mia madre, novantenne, stava male. Traversai di corsa Milano. Che silenzio, la notte, in una casa di riposo, nelle luci basse. Lei aveva perso conoscenza. Un tracollo, il cedimento di una vecchia casa sotto il peso degli anni. Niente da fare, scosse la testa il medico. Ma come quel petto magro si alzava forte, nel ritmo del respiro affannoso. Pensai al palpitare di un passero trovato morente, da bambina. (La vita si ostina a vivere, fino all'ultimo istante).
Mi sono seduta e le ho preso una mano. Come si era spezzata la nostra famiglia, e quanto male ci eravamo fatte. Io però, diventata madre, avevo capito, ero riuscita a tornarle accanto. Nel silenzio ora percepivo un treno lontano. Delle campane battevano le ore. E quel respiro, l'ultima battaglia.
La morte fu gentile con lei. Se ne andò nel sonno. Restai a lungo a guardarla: non potendo credere morta, la madre che mi aveva partorita. Mi sentivo sradicata. Ma nella notte di marzo, uscendo, percepii un profumo diverso nell'aria. Primavera, pensai, e quel fiato tenero mi sembrò crudele.
A casa dormivano i due maschi, adolescenti, e la bambina. Cosa sarebbe questa notte se voi non ci foste, pensai. E solo la gratitudine di avere dei figli leniva un poco il lutto, come un balsamo naturale e pietoso.
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