Ho preso l’abitudine di guardare sul web le foto da Gaza. Oggi me ne è capitata sotto agli occhi una di tre mesi fa, il credit è DPA. Mi sono soffermata a guardarla a lungo.
La bambina avrà sei anni, è in primo piano sullo sfondo dei palazzi in macerie. La casa accanto a lei è orribilmente schiacciata, contorta, sul punto di crollare: ma la bambina ci passa accanto. É spettinata, affannata, ansante, colta nel momento in cui scappa. Sembra sola. Ha gli occhi scuri e grandi di tutti i bambini di Gaza - occhi che hanno visto tutto, e non dimenticheranno.
La piccola sconosciuta però ha salvato, nella fuga, la sua bambola, e la tiene stretta al petto, come ciò che ha di più caro. É una Barbie biondissima, elegante, scalza dei tacchi alti che certamente portava. Come la stringe la bambina palestinese: con due mani, mentre va dove non sa, a cercare un rifugio.
Pare, una bambola tra le macerie di una città, una cosa da niente. Ma avere salvato almeno una cosa cara è importante, è memoria, e desiderio di tornare a vivere.
Mi immagino che la bambina della foto, la notte, addormentata nella folla accalcata di un campo profughi, tenga ben stretta a sé la sua Barbie. Non è un giocattolo, è una corda cui attaccarsi, naufraghi, per restare a galla.
La foto è di dicembre. Chissà, mi domando, se la bambina della Barbie oggi è viva.
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