A Roma era maggio, un mezzogiorno radioso e caldo. Avevo vent'anni. La luce cui, da milanese, non ero abituata, mi abbagliava. In una piazza salii gli scalini di una chiesa sconosciuta. Cercavo solamente, io che in chiesa allora non andavo, penombra e quiete. Abituati gli occhi all'oscurità, notai sulla mia sinistra un fluire di visitatori stranieri. Senza sapere dove andavano, li seguii. Nell'ultima cappella a sinistra mi trovai di fronte al Caravaggio della Conversione di Matteo. Rimasi immobile a contemplarlo. Fissai il ragazzo seduto al fondo della tavola, disperato, il viso chino, nell'ombra, su una manciata di denari. Provai, per quel ragazzo di secoli remoti, una singolare tenerezza. Per molti anni continuai ad andare a trovare quel Caravaggio, ogni volta che passavo da Roma: come fosse una persona.
Pochi anni fa mi sono imbattuta in un manifesto che riproduceva, ingrandendolo, il ragazzo chino sulle monete. Sbalordita: quanto somigliava a uno dei miei figli, allora di diciotto anni. Nella luce fioca di San Luigi dei Francesi non ne avevo distinto il volto. Ma quello era Pietro, così lontano dal nascere, in quel giorno di maggio.
Innamorarsi dell'ombra di un figlio che non c'è ancora. Al mondo: ma ciascuno è in Dio, fin dal principio. In lui già intessuta, di ciascuno, la trama.
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