Ricordo un taxi a Tokyo, il tragitto verso l’aeroporto, il conducente che promette 40 minuti esatti di viaggio, l’incidente improvviso che blocca la strada, la disperazione del taxista. Non per il ritardo in sé, ma soprattutto per avermi fatto una promessa che non poteva mantenere. E le sue scuse, ripetute, profonde, pur senza colpa alcuna. Sono fatti così, e sono fatti bene: gente seria, che cerca di fare le cose al meglio, ognuno nel proprio ruolo. Ueda Kyoto in un libro spiega che i giapponesi chiedono scusa con frequenza, e nella stessa misura in cui sanno ringraziare. Nella loro cultura però ha un significato più complesso. In Giappone ci si scusa per ammettere un disservizio, ma innanzitutto per smorzare i toni, per riportare alla calma la conversazione e ripartire da lì, alla ricerca del problema e di una possibile soluzione. Che bello allora se potessimo essere tutti giapponesi anche solo per un quarto d’ora al giorno, per dieci minuti. Se sapessimo accettare le scuse altrui, e dire grazie. Se riuscissimo ad essere umili e costruttivi. Quanto sarebbe bello, nel fondo delle nostre sciocche nevrosi, ispirarci a loro. Bastano un piccolo pensiero, una parola detta o non detta, perché lo stile è scusarsi, ma anche saper non dire quando è più opportuno tacere. Non si vince il mondo così, ma forse un poco lo si cambia.
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