martedì 20 giugno 2017
Ho questa fissazione sui nomi delle cose. L'ambiente umano è il simbolico: nominando quello che ci circonda lo rendiamo comprensibile, accessibile, modificabile - purtroppo non sempre e necessariamente in meglio.
Della parola "badanti" ho già parlato. Avrei molto da dire sull'atroce "il mio compagno" e "la mia compagna" - tovarish? - in uso tra le coppie non sposate.
Da anni, e non ne esco, ho ingaggiato una colluttazione con il termine "periferie": letteralmente, ciò che corre intorno. Un modello aristotelico-tolemaico in quanto tale fallace, che vede il più e il meglio dell'umano al centro. Servirebbe anche qui una rivoluzione copernicana.
Di urbanistica non so niente. Con le parole ho maggiore dimestichezza. E sono convinta che se troviamo la parola giusta il più del lavoro è fatto: per lavoro, intendo, sottrarre le cosiddette periferie al degrado, all'abbandono politico e allo sprezzo economico e morale - nel francese banlieue risuona una esplicita messa al bando - fino a svuotare di senso ogni moto aspirazionale centripeto.
Ma la parola ancora non arriva: "città policentrica" è faticoso e volontaristico, "quartieri" è vecchio e non programmatico. Vi viene qualche idea?
In attesa dello Spirito, apparecchiamo per la sua venuta. Aggiustiamo, spazziamo, lustriamo, rigoverniamo. Scoviamo il bello che c'è - e ovunque c'è - e diamogli una mano.
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