4 maggio 1949. Un mercoledì, come oggi. Da un mese esatto l'Italia ha aderito al Patto Atlantico e piano piano sta rinascendo dalle ceneri di una guerra devastante. La gente è povera, ma sta rialzando la testa e cerca un simbolo a cui aggrapparsi per tornare ad essere orgogliosa del proprio Paese. A dare speranza è lo sport: sono gli anni di Coppi e Bartali, sono le stagioni del Grande Torino. Pieno di speranza è anche Antonio Gianmarinaro detto Tony, un ragazzo di diciott'anni che gioca a calcio e che dopo un'infanzia serena in Tunisia, dove è nato, si è ritrovato povero nell'Italia del dopoguerra, ma con un'opportunità più unica che rara: la possibilità di giocare nel Torino, la squadra più forte di sempre. Il 4 maggio del 1949 quella squadra, tutta insieme, scompare nello schianto di un aeroplano, sulla collina di Superga. Due giorni più tardi Tony è vicino alla bara del suo capitano: il numero 10, Valentino Mazzola. Durante il funerale non si muove di un passo. Osserva quella folla immensa.
«Una cosa straziante – racconta il 91enne Gianmarinaro – noi ragazzi avevamo il cuore spezzato. Per noi erano padri o fratelli maggiori. Valentino Mazzola mi aveva preso sotto la sua ala protettrice». Al suo primo provino al Filadelfia, il tempio di quella squadra, Tony si presenta giovanissimo e così povero da arrivare in ciabatte. All'ingresso il custode chiede spiegazioni e quando il ragazzo gli dice che lo aspettano per un provino, lo schernisce: «Non hai neanche le scarpe da gioco! Vattene», ma in quel momento passa Mazzola. «Valentino comprese subito la situazione e ordinò al custode di darmi un paio delle sue scarpe – racconta Tony – sostenni il provino e mi tesserarono subito; tutto merito del mio Capitano». Ai funerali, nel caos ovattato di quell'ultimo commosso saluto agli Invincibili, Tony sente il presidente della Federcalcio Ottorino Barassi decretare il Torino «Campione d'Italia». Sa che gli verrà cucito sul petto lo Scudetto anche se non immagina ancora che nelle ultime quattro partite indosserà proprio la maglia numero 10, quella di Mazzola, e che i tifosi del Filadelfia urleranno fino a perdere la voce, di strazio e di gioia, quando proprio lui segnerà il primo gol, nella prima partita dopo la tragedia, contro il Genoa. Tony non lo sa ancora, mentre piange in mezzo a 700.000 persone, in una Torino che ha chiuso fabbriche, uffici e negozi per consentire a tutti di porgere l'ultimo saluto a quei giovani amati. E i torinesi sono tutti lì.
Nella camera ardente allestita a Palazzo Madama, Tony Gianmarinaro sfiora le maniche di quella maglia granata appoggiata sulla bara. Quando la squadra era in difficoltà, Capitan Valentino se le tirava su, platealmente, e le arrotolava come fa la gente quando deve iniziare un lavoro. Era un codice, per compagni di squadra, tifosi, avversari. Stava per iniziare il «quarto d'ora granata», fine della storia. Quel ragazzo, solo in mezzo a 700.000 persone, non si era mai sentito così grato e così protetto. «Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede – scrisse Indro Montanelli –. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta».
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