Ogni generazione ha il suo gergo. Quando ero giovane, chiunque oltre i quarant’anni era considerato un “matusa” che non capiva nulla, uno ligio a tutte le regole era un “convinto” (e valeva per tutti, da chi si metteva sempre in divisa perfetta alle riunioni scout a chi studiava troppo); e di una cosa che per noi non aveva nessuna importanza, sia in senso letterale che figurato, dicevamo che “m’arimbarza”, mi rimbalza.
Per i giovani di oggi queste espressioni e modi di dire sono roba, appunto, “da matusa”, reperti archeologici di un’altra era geologica, sostituiti da altre espressioni e modi di dire che spesso neppure capisco. Li ho sentiti qualche volta dalle mie figlie ma, per quella “accelerazione del tempo” che negli ultimi decenni s’è messo davvero a galoppare, ho l’impressione che quelli di Giulia siano almeno in parte diversi da quelli di Camilla, di nove anni più giovane della sorella. Una “Millennian”, l’altra “Nativa digitale”, secondo la sociologia. Quello che fino all’altroieri era l’intervallo tra due generazioni – venticinque anni – oggi s’è come ristretto, compresso.
Credo sia una sensazione che quelli della mia età, o giù di lì, percepiscono. Da quando mi è stata diagnosticata la Sla mi succede molto spesso di riflettere su questo fenomeno di accelerazione. Che se lo metto in relazione alle mie figlie (e lo faccio sempre) diventa un tarlo. Mi sembra di star rubando loro la giovinezza, che è una cosa che non ritorna. Mi chiedo se non sarebbe stato meglio anche per me, come è successo a tanti con la mia stessa malattia, che la Sla fosse stata una pratica da sbrigare in pochi mesi. Per Giulia e Camilla sarebbe stato uno strappo traumatico, lo so, ma forse, alla fin fine, meglio che accompagnarmi in questa mia ormai infinita agonia, che dura già da sei anni. Me lo chiedo ogni giorno, e ogni giorno non so la risposta. Né mi consola pensare che, vabbè, in fondo non mi resta molto, che tra un po’ anch’io finalmente sbrigherò questa pratica. Sarà comunque troppo il tempo che ho rubato loro.
Ma poi le vedo chine sul mio letto che mi accarezzano, mi sorridono, mi baciano la fronte come facevo io con loro quando erano piccole, che avvicinano la loro guancia alle mie labbra che quasi non si muovono più, in una simulazione di bacio. E mi viene voglia di avere un giorno in più da vivere per poter guardare un’altra volta i loro occhi.
E così però diventa un cane che si morde la coda. No, di Giulia e Camilla decisamente non “m’arimbarza”
(81.Avvenire.it/rubriche/Slalom)
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