«Lì l'Amore ha posto il suo seme e colmato ogni cosa, stilla dagli alberi, dai fiori, dalle acque. Lì l'occhio che vede Krishna non si accontenta di altra bellezza, né l'orecchio che ode il suo flauto cerca altro suono. Lì si consuma l'attesa di quell'unione di umano e divino in cui non ci sarà più messaggero, ma la gioia raccolta in un abbraccio d'amore». Nel palmo di questo lampo di sintesi Giusi Santagati raccoglie le stille, i suoni e i petali della poesia religiosa bhakti, sviluppatasi in India nel periodo medievale e caratterizzata da una forte componente erotica. È infatti indispensabile percepire: «questa rassomiglianza tra la vita divina e la forza dissolvente dell'amore, quel fuoco in cui l'individuo, sottratto a sé stesso, è restituito al grande mistero divino». Sublimi sono le rime nella ricerca d'esprimere il cuore, che: «torturato dalle frecce d'amore, si torce e lacera nella rete» della speranza di ritrovare l'amato, quand'egli s'attarda in terre lontane. Pena d'amore che nell'ardere scava voragini di vuoto, colme di desiderio. Così nel Cantico biblico, così nei grandi mistici. «Muoio di non morire» sospirava Teresa d'Avila, perché il corpo e il mondo altro non sono che un esodo d'Amore.
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